Una bellissima lettera aperta traccia il racconto di uomini costretti a negare la propria omosessualità nella chiusa vita di provincia degli anni ’50. Esistenze votate alla prudente mediocrità in un’Italia che non perdonava i “diversi” spingendoli all’infelicità e alla solitudine.

 

Gilberto Severini con Dilettanti (Fandango Playground) torna nella sua provincia marchigiana, ci racconta gli anni ’50 del secolo scorso, ci parla in un gruppo di ragazzini, delle loro prime esperienze e approcci sessuali in un teatrino parrocchiale in disuso, quando “gli assalti degli ormoni giustificavano soluzioni di emergenza”. Per alcuni di loro l’esperienza con coetanei dello stesso sesso rappresenterà un semplice una tantum (“Che sessualità era quella? Di passaggio, sostitutiva, fisiologica?” si chiede la voce narrante), per altri sarà la prima di molte.

Ma si sa, se la provincia è un ambiente chiuso ancora ai giorni nostri, figuriamoci come potesse essere in quegli anni: una sorta di prigione morale per chi non poteva o non voleva omologarsi, in questo caso i protagonisti della vicenda, Giulio, Sergio e, ovviamente, il narratore che ci presenta un ambiente soffocante la cui Trimurti di riferimento era Famiglia, Chiesa e Bar; un contesto nel quale tutti ambivano a far parte della piccola borghesia (simbolo effimero della “normalità”), con i suoi valori di facciata e le sue regole, piccoli quanto lei.

La provincia era (e forse è ancora) un luogo da cui si scappa o nella quale ognuno si nasconde da se stesso, e allora Severini continua la narrazione mostrandoci come questi personaggi sono cresciuti. C’è chi si è allontanato dai luoghi di origine per vivere un’esistenza completa, salvo poi ritornare, e chi non ha mai provato a prendere le distanze (nemmeno una distanza fisica) da certe dinamiche. L’autore riassume le varie modalità di rapportarsi alla propria omosessualità lontano dai grandi centri abitati, con poche parole: “Come conviverci? Esibendola con teatralità. Dedicando, all’errore, un piccolo spazio della settimana fuori agenda, in segretezza e altrove. Occultandolo con matrimoni moderatamente infelici”

E così rincontriamo, ora adulto, Giulio, dandy nostrano, di buona famiglia, le cui “amicizie particolari” generano ancora più scandalo perché non è solito accompagnarsi ai suoi pari, ma a ragazzi del popolo. Scandalizzerà ancora di più i benpensanti quando porrà fine, con il lessico enfatico dei melodrammi e colpi di pistola sparati a casaccio, a una relazione burrascosa con l’aitante Italo. Sposerà una donna, sì, ma il matrimonio, con basi tanto fragili, quanto potrà durare?

E ritroviamo Sergio (che da ragazzino si reca, non a caso, a un concerto di Umberto Bindi, una delle varie vittime celebri del perbenismo omofobo del Belpaese) il cui cuore era stato spezzato quando si era accorto che il sentimento che provava per l’amico Giancarlo non avrebbe mai potuto essere ricambiato. È il simbolo dell’autorepressione, una delle tante vite mancate di questo romanzo, perché dopo quel devastante imprinting non sarà più in grado di stabilire una relazione, di qualsiasi tipo, con altre persone. Ma poi accade una cosa, Sergio (la cui “disponibilità agli innamoramenti impossibili ha attraversato decenni senza attenuarsi”), ormai in pensione, entra in una nuova dimensione, quello dei social, si adegua alla sintassi acerba e sbrigativa delle chat per incontri e reinventa, tramite esse, la propria mancata giovinezza. Contatta/viene contattato da ragazzi incuriositi dagli uomini maturi, ma forse nemmeno qui riuscirà a compiere il grande passo.

Si aggiungono a loro il giovane Marcello, disponibile a rapportarsi via chat con Sergio, e Giovanna, collega di quest’ultimo, unico personaggio femminile su cui l’autore si soffermi.

Severini racconta la sua provincia, che per esteso diventa l’intera provincia italiana, limitata, limitante e pettegola. Lo fa usando uno stile ben più che asciutto tanto da far sembrare ogni capitolo dedicato a un personaggio, quasi un’istantanea di quel preciso momento (il narratore incontra e rincontra ogni personaggio più volte nel corso dei decenni e ogni capitolo ha tutto l’aspetto di un frammento di vita e di memoria) e si rivolge a Giulio, Giovanna, Sergio e a tutti gli altri con un Tu sempre carico di affetto.

Ci regala, da un punto di vista stilistico, dissertazioni sul concetto di pettegolezzo (inteso come “un’espressione di creatività strutturata, sostanzialmente letteraria, con strategie narrative codificate, per non sospendere l’azione quando le informazioni si rivelano insufficienti”) ampiamente praticato nei piccoli centri; introduce ai lettori Italo, che fa la sua prima apparizione, come danzatore, tra i concorrenti di una sorta di talent show ante litteram, descrivendolo mentre “piroettava con troppo anticipo sullo sdoganamento del maschio ballerino”; gioca con gli ossimori (Giovanna possiede gli “slanci del generoso egoismo dei bambini”) e ci sorprende con sghembi accostamenti di avverbi e aggettivi (Sergio incontrerà su internet un uomo “garbatamente morboso nell’affrontare i temi classici delle chat”).

L’autore ha concesso a Pride una breve intervista, ecco cosa gli abbiamo chiesto.

In apertura del libro lei dichiara che “È finita l’era dei dilettanti”. Per quale motivo definisce dilettanti i protagonisti del suo romanzo?

Dilettanti è una definizione legata alla provincia degli anni in cui è ambientato il romanzo, dove c’erano grandi talenti creativi, troppo radicati nel loro ambiente e fedeli alle loro abitudini per cercare occasioni più importanti di visibilità. Sul piano affettivo, con dilettanti, mi riferisco a ragazzi che non riuscivano a risolvere i propri problemi identitari, soffocati dalle regole dettate dal senso comune, dalla famiglia, dall’educazione sessuofobica di allora.

Chi è il narratore di Dilettanti? E perché si rivolge ai personaggi con il Tu?

È un signore attempato che come molti anziani ricorda persone conosciute e perse di vista, cercando di ricostruirne i destini. Con il Tu il narratore “parla” a chi sta evocando come se fosse presente e in ascolto.

In uno dei capitoli il narratore fa riferimento al romanzo Fabrizio Lupo di Claudio Coccioli (vicenda di un uomo cattolico che scopre la propria omosessualità con relativi sensi di colpa). È un caso? Può spiegarci quale fu l’importanza di questo testo per lei?

Ho letto Fabrizio Lupo in francese all’inizio degli anni Sessanta. Da noi fu tradotto molto più tardi. Era un libro del tutto insolito per stile e tema. Un conflitto irrisolvibile nell’Italia di allora che riguardava più di una persona che conoscevo: conciliare l’amore omosessuale con la fede cattolica.

Le psicologie dei personaggi – così come, ovviamente, quelle delle persone – vengono plasmate anche dall’ambiente in cui sono cresciuti. Nel caso del suo romanzo, la provincia italiana degli anni ’50/’60. Com’è cambiata la provincia da allora?

Da un dopoguerra povero all’euforia delle prime utilitarie si è passati a un mondo dominato dal consumo e dalla tecnologia. Basti pensare alla velocità con cui ci si informa, si comunica e si naviga nel web per rendersi conto che molti limiti della vita di provincia sono stati superati o comunque hanno perduto gran parte del loro potere di interdizione.

Come vede la situazione delle persone LGBT nell’Italia di oggi?

Mi sembra che molti diritti siano stati acquisiti impensabili fino a un paio di decenni fa, ma credo sia altrettanto vero che stiano emergendo o riemergendo forme di intolleranza poco rasserenanti.

In quale modo secondo lei si può fare militanza con la letteratura?

Penso che il compito di uno scrittore, grande piccolo o piccolissimo, sia di scrivere meglio che può. Tutto quello che un romanzo o un racconto può fare è mettere in moto zone di sensibilità a volte inerti, emozionando e interessando il lettore ai temi e ai personaggi del libro.