La devastante esperienza delle terapie riparative che giurano di poter “guarire dall’omosessualità” attraverso la preghiera in La diseducazione di Cameron Post, un epico romanzo da cui è stato tratto l’omonimo film che ha trionfato al Sundance Festival.

 

Immaginate una ragazzina della fine degli anni ’80 del secolo scorso. Immaginate che si chiami Cameron, che si scopra lesbica lo stesso giorno in cui diventa orfana e che viva nel Montana, luogo, a quanto pare, non particolarmente accogliente per le persone LGBT. Immaginate anche che la tutrice, la zia Ruth, fervente fedele di una delle varie correnti in cui il cristianesimo si è sminuzzato nel corso degli ultimi 2000 anni, sia un tantinello omofoba. La cara e premurosa zietta, venuta a conoscenza della peccaminosa condotta della nipote decide di spedirla al God’s Promise (nome ovviamente fittizio che adombra però quello di tante realtà in cui si applicano le teorie riparative) in modo che la ragazzina venga rieducata e ricondotta alla Fede.

Questa è la trama di La diseducazione di Cameron Post (ed. Rizzoli), romanzo d’esordio di Emily M. Danforth, finalista al Lambda Literary Award.

Il luogo ameno in cui Cameron viene relegata si prefissa il compito di essere, al contempo, scuola cristiana e centro di cura, gestito dal reverendo, ex gay (qualunque cosa sia un ex gay), Rick e dalla dottoressa Lydia (che sembra una figura appena uscita dal dipinto American Gothic di Grant Wood). Qui Cameron subisce, come tutti gli altri compagni, un continuo e programmatico processo di mortificazione dei propri pensieri (quelli omosessuali, ovviamente), di negazione dei propri desideri (idem), di annichilimento del proprio io più profondo, facendo leva sul suo senso di colpa. Inutile dire che nessuno dei discepoli (non sono studenti, sono proprio discepoli) cambia, nessuno guarisce, nessuno viene riparato (forse perché in loro non c’era niente da aggiustare?) e nonostante ciò ognuno subisce un trauma profondo (non solo psicologico). Riusciranno Cameron e i suoi amici a organizzare una fuga degna di tale nome?

Il libro mette in luce il fenomeno della riconversione delle persone LGBT che in alcuni paesi (gli USA ne sono un esempio) viene estremizzata (e istituzionalizzata) al punto da creare luoghi specifici destinati a tale scopo. Il “motto” del God’s Promise è “Il contrario del peccato dell’omosessualità non è l’eterosessualità: è la santità”, quasi una variante (altrettanto vomitevole) de “Il lavoro rende liberi” che campeggiava all’entrata del campo di concentramento di Auschwitz.

Il romanzo descrive in modo approfondito la vita di Cameron prima del periodo di residenza forzata. Seguiamo le sue vicende e i suoi pensieri (il romanzo è narrato in prima persona e ciò giova all’immediata autoidentificazione nella protagonista da parte dei lettori) nella cittadina di Miles City: la scuola, le lezioni di nuoto, le uscite con gli amici. Assistiamo alle sue prime cotte, ricambiate o meno: per Irene (un rapporto che termina con la morte dei genitori di Cameron), per la politicizzata (in senso buono) Lindsey (che, dall’assolata e progressista West Coast, le impartirà lezioni su tutto ciò che occorre sapere sulla “cultura pop atta a costruire una coscienza lesbica”), per Coley (che rappresenta il rifiuto ipocrita e il tradimento) e per Mona, una promessa per un nuovo futuro ancora tutto da costruire.

Vediamo la protagonista affittare in modo compulsivo videocassette di film che hanno contribuito a creare l’immaginario cinematografico lesbico dai primi anni ’80 ai primi anni ’90: Due donne in gara, Miriam si sveglia a mezzanotte (che diventa lo spunto per un maldestro tentativo di seduzione), Cuori nel deserto, Thelma & Louise, Hotel New Hampshire. Così facendo l’autrice narra con una certa fluidità il percorso di progressiva consapevolezza di Cameron, in grado di captare sempre meglio, dal mondo che la circonda, gli ipotesti della sottocultura LGBT (“Dovevo aver sviluppato in qualche modo la capacità di afferrare le parole in codice che indicavano contenuti gay” dice a se stessa la ragazza che non riesce a capacitarsi di incappare, ogni volta che entra in una videoteca, in pellicole a tematica lesbica).

Si aggiungono, ai personaggi già citati, la nonna paterna, Margot (amica della madre, una delle figure più affascinanti e ambigue del romanzo), Jamie (l’ex “fidanzatino” che non si scompone più di tanto quando Cameron fa, in sua presenza, un larvato coming out), Steve (sicuramente il personaggio più tragico del libro, simbolo concreto degli effetti nefasti delle terapie riparative) e Adam.

In un contesto così volutamente (ma mai gratuitamente) drammatico non mancano quelli che, a livello narrativo, vengono definiti comic relief, momenti in cui l’atmosfera si fa più “respirabile”. Al God’s Promise, per esempio, veniamo a conoscenza sia della musica di genere Christian Rock (sì, esiste, con varianti e divagazioni che sfociano nel Christian Punk e nel Christian Metal) che delle videocassette di lezioni di Aerobica Cristiana (“Uno, due, tre, gioia! – Cardio per Cristo” è uno dei vari titoli a disposizione) con esercizi per perdere peso e, contemporaneamente, ritrovare la Fede. La zia Ruth, invece, lavora come rappresentante per la Sally-Q, azienda specializzata in vendite porta a porta di utensili da lavoro (martelli, cacciaviti, pinze) appositamente studiati per le donne (già!), il che non può che far venire in mente il finto spot pubblicitario in cui l’attrice Ellen De Generes ridicolizzava la biro “BIC for Her”.

Grande importanza ha nel libro il paesaggio, descritto in ogni stagione, che diventa esso stesso protagonista, in particolar modo nella scena finale, catartica e indimenticabile, presso il lago Quake, un luogo che nel corso dei decenni sembra aver attirato a sé, in modo inesorabile, il destino di tutti i componenti della famiglia di Cameron.

Il romanzo uscito negli USA nel 2012, quest’anno è diventato un film dall’omonimo titolo con Chloë Grace Moretz nel ruolo di Cameron. Quest’anno, inoltre, è stato realizzato anche il film tratto da Boy Erased. Vite cancellate (Edizioni Black Coffee) di Garrard Conley, libro autobiografico sulle esperienze dell’autore in una comunità in cui sono applicate le teorie riparative.

Abbiamo fatto qualche domanda all’autrice.

Quando sei venuta a conoscenza per la prima volta dei programmi di terapia per la conversione delle persone omosessuali, e come ti sei documentata per scrivere il tuo romanzo?

Non ricordo precisamente quando sono venuta a conoscenza per la prima volta, come argomento, della terapia di riorientamento sessuale in generale ma nel 2005, proprio mentre stavo cominciando a lavorare al mio romanzo, la storia di un’adolescente nel Tennessee che era stata inviata in un campo per le terapie riparative per curarsi dall’omosessualità ricevette dell’attenzione a livello nazionale, perché la ragazza stava pubblicando dei post al riguardo sulla sua pagina Myspace. Ho seguito la storia attentamente e sapevo di voler fare ulteriori ricerche in merito.

La storia di Cameron Post non è una versione romanzata della storia di quella specifica ragazza (come invece è stato erroneamente riportato qualche volta), ma le vicende della sua vita reale sono state la scintilla che ha scatenato il mio interesse nel fare ricerche al riguardo, cosa che ho poi fatto per i successivi due anni. Cercavo innanzitutto di sapere a cosa somigliavano le terapie di conversione (o riparative, come erano più comunemente chiamate allora) influenzate da principi religiosi su base evangelica negli Stati Uniti nei primi anni ’90 del secolo scorso.

La mia ricerca prese diverse forme: dal parlare con sopravvissuti alle terapie di riorientamento alla lettura di autobiografie sull’argomento (Stranger at the Gate di Mel White fu particolarmente influente), alla lettura delle opere di Elizabeth Moberly (fu lei a coniare il termine “teoria riparativa”). Il documentario One Nation Under God del 1993 di Teodoro Maniaci e Francine Rzeznik, che riguarda in parte la fondazione di Exodus International (un’organizzazione ombrello che forniva molte risorse ai medici che applicavano le terapie riparative, e che fortunatamente si è sciolta nel 2014) e gli albori delle terapie di conversione in America, mi è stato particolarmente utile perché era proprio il periodo che mi interessava.

Ho anche scovato materiale fondamentale come manuali di formazione per aspiranti medici delle terapie di riorientamento sessuale. Per esempio il volantino “manuale del dormitorio” che è ricreato nel mio romanzo riprende il linguaggio, la retorica e la forma in generale di un documento molto simile che era stato usato per anni in un centro residenziale per la terapia di conversione in Kansas.

Penso che sia molto importante per i lettori capire che il God’s Promise, e le sue pratiche e le sue politiche, sono solo una storia di terapia riparativa e di come potrebbe apparire. Ne esistono letteralmente (e vergognosamente) centinaia e centinaia di altre.

Il tuo libro è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2012. Come sono cambiate da allora nel tuo paese le cose per la comunità LGBT?

Questa è una domanda enorme. Voglio dire che tante, tantissime cose sono cambiate per le persone LGBT in questo paese negli ultimi 6 oramai quasi 7 anni. Innanzitutto il matrimonio egualitario non è stato esteso a tutti i cinquanta stati americani fino al 2015, ossia 3 anni dopo che La diseducazione di Cameron Post fu pubblicato per la prima volta.

Comunque in questi anni abbiamo anche assistito anche all’assassinio di tantissime donne trans di colore, alla strage mortale alla discoteca Pulse a Orlando, all’introduzione di normative orribilmente bigotte e ripugnanti come i progetti di legge anti-trans sui bagni, all’elezione di un vicepresidente come Mike Pence che ha una lunga storia di opposizione ai diritti LGBT e una volta si è fatto anche sostenitore di un investimento di denaro pubblico per le teorie riparative. E ovviamente la costante ondata di bigottismo, bullismo e così spesso mendaci dichiarazioni via Twitter e commenti del presidente Trump sta fomentando l’odio come mai era accaduto in questo paese. C’è della speranza, comunque, in molte forme di resistenza. Per esempio le recenti elezioni di medio termine e la “onda arcobaleno”, per i numeri da record di persone LGBT che erano candidate (e molte di loro sono state elette!)

Il tuo libro nel 2018 è diventato un film. Hai preso parte alla sua realizzazione? Come consideri il risultato finale?

Desiree Akhavan (regista e co-sceneggiatrice) lesse il libro quando era ancora in forma di bozza e mi inviò una mail veramente molto carina. Io le ho subito risposto, anche perché sia io che mia moglie eravamo fan delle sue webseries queer The Slope che stava girando allora e nelle quali era coprotagonista. Ci siamo quindi incontrate qualche volta e siamo rimaste in contatto. Dopo il successo del suo primo meraviglioso film Appropriate Behaviour, Desi mi contattò di nuovo dicendo che lei e Cecilia Frugiuele, la sua partner in campo cinematografico (non sentimentale), erano interessate a comperare i diritti cinematografici del libro. Io ero assolutamente elettrizzata. È così raro persino riuscire a trovare una donna regista a Hollywood – anche nel circuito hollywoodiano indipendente – che sapere di avere un progetto con una regista donna, bisessuale e iraniana, che era stata per anni una fan del mio libro, mi ha fatto sentire (e mi fa tuttora sentire) incredibilmente fortunata.

Durante più o meno l’anno successivo lessi molte versioni della sceneggiatura (cambiata in modo significativo nel corso delle varie stesure), proposi alcuni suggerimenti, parlai via Skype con Desi e Cecilia del progetto e ho anche portato Desi in giro per il Montana per un paio di turbinanti giornate mentre lei era alla ricerca di potenziali location. Sapevo già dall’inizio che programmavano di concentrarsi in gran parte sulla trama del tempo trascorso da Cameron al God’s Promise, che fondamentalmente occupa solo l’ultimo terzo del libro. Ho perciò avuto tutto il tempo di rassegnarmi all’idea che molta parte della storia di Cameron non sarebbe stata portata sullo schermo.

Penso sul serio che la maggior perdita per me non fosse che la storia non fosse completa ma che non ci sarebbero state scene girate in Montana. Ho spinto all’inverosimile per far girare le scene lì, ma è uno stato molto caro dove trovare un cast tecnico e artistico se non sei un residente, e non ci sono tanti incentivi fiscali per girare lì una pellicola. Questo film è stato realizzato con poco più di un milione di dollari, che potrebbe sembrare una cifra alta ma è un budget proprio basso anche nel mondo delle produzioni indipendenti. Nel Montana proprio non si poteva fare e sono contenta che la produzione abbia deciso di non “barare” facendo credere al pubblico che il film fosse ambientato in Montana, perché la zona a nord di New York (dove il film è stato girato) non somiglia per niente al Montana.

Durante l’autunno del 2016 ho visitato il set un paio di volte, ed è possibile intravvedere me (e mia moglie!) nella scena del concerto rock se si guarda da vicino e si tengono gli occhi ben aperti. Tutti coloro che sono stati coinvolti nella lavorazione di questo film sono persone brillanti, appassionate e desiderose di lavorare anche con un salario bassissimo pur di vedere la cosa andare in porto, e sono così grata a tutti loro e al loro talento. Penso che sia un film bello, onesto e sincero. Se l’avessi visto negli anni ’90, in Montana, quando avevo 14 anni e non avevo fatto ancora coming out, questo film mi avrebbe cambiato la vita.

Il libro è ambientato a Miles City, la tua città natale. Qual è stata la reazione dei tuoi concittadini una volta saputo il modo in cui li avevi rappresentati?

Penso che ci sia una certa quantità di “orgoglio da città natale” dentro di me per il successo del libro, anche se gli abitanti di Miles City non ne amano necessariamente l’argomento. Ma è anche vero che a molti abitanti è piaciuto il modo in cui è stata descritta la città nel romanzo. Una delle mie ex compagne di classe mi ha raccontato di essersi “preparata al peggio” prima di iniziare la lettura, aspettandosi una descrizione feroce della città. Tuttavia mi ha detto di aver trovato tra le pagine, con molta sorpresa, un sacco di amore per quel luogo e per quel periodo, e penso che abbia ragione. Il romanzo è una specie di complicata lettera d’amore al periodo della mia fanciullezza e alla mia adolescenza vissute lì, nel bene e nel male. È importante ricordare che la città di cui stavo scrivendo – e il suo modello culturale – è quella di quasi trent’anni fa. Non sto dicendo, sfortunatamente, che oggi non ci siano ancora persistenti aspetti di quella cultura di intolleranza e bigottismo, ma la descrizione è di quella città dei tardi anni ’80 e dell’inizio degli anni ’90 del secolo scorso.

Credo che a molti lettori di Pride piacerebbe sapere se continuerai, nel tuo prossimo libro, a raccontare la vita di Cameron o se ti dedicherai a nuove storie.

Ahhhhh… Mi è stata fatta questa domanda un sacco di volte e mi piace che molti lettori siano stati coinvolti così tanto da Cameron e dalla sua vita da voler sapere che cosa le succederà dopo. Ho effettivamente scritto delle pagine aggiuntive alla vita di Cameron dopo God’s Promise, ma nulla che mi convinca, non ancora comunque. Per ora non ho piani specifici sul raccontare il seguito del romanzo su Cameron Post ma ciò non significa che non lo farò un giorno.

Giusto lo scorso mese ho venduto il mio nuovo romanzo, pensato come una commedia-horror (immaginate un po’…) per un target più adulto dal titolo Plain, Bad Heroines. Sarà pubblicato nell’autunno 2020. Plain, Bad Heroines si svolge in parte nel presente e in parte nel passato (nel Rhode Island tardo vittoriano) e parla di un collegio femminile in riva all’oceano colpito da una maledizione, e delle tre donne queer che, ai giorni nostri, tentano di realizzare un controverso film horror su quella vicenda.