(parte 3)

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  1. Un diritto all’omogenitorialità?

 La lotta per il riconoscimento delle famiglie create da coppie gay e lesbiche continua a essere portata avanti dal movimento LGBT. La sua parte più forte richiede l’introduzione all’interno delle unioni civili non solo della “stepchild adoption”, ma anche del riconoscimento delle famiglie gay e lesbiche fin dalla nascita dei figli come avviene per il matrimonio, avanzando ragioni relative alla parità tra i sessi e all’antidiscriminazione (Arcigay, 2016a).

Ma com’è possibile che nascano dei bambini all’interno di una coppia gay? Solamente attraverso l’istituto giuridico della maternità surrogata, che cancella la madre biologica dal certificato di famiglia in quei paesi (pochi) in cui è stato introdotto.

Tale richiesta di riconoscimento della “famiglia gay” alla nascita produce un impatto negativo sulla considerazione e sulla posizione sociale delle donne; i critici sottolineano come l’impiego di argomenti quali l’antidiscriminazione e l’uguaglianza tra sessi a favore dell’introduzione della maternità surrogata abbiano come conseguenza il ridimensionamento dei diritti delle donne come madri, prima di tutto il diritto riconosciuto in molte convenzioni internazionali di allevare i propri figli (Se non ora quando-Libere 2017).

Una parte significativa del movimento LGBT sostiene che la maternità surrogata[1] debba essere introdotta in Italia anche per soddisfare un presunto “diritto all’omogenitorialità”.[2] All’interno delle campagne politiche LGBT, il “diritto a diventare genitore” sembra essere dato per scontato, senza indicare quali dovrebbero essere i corrispondenti doveri che consentano a qualcuno di divenire genitore attraverso la cessione (a lui, o a lei, o a loro) del proprio figlio.[3]

Molte voci all’interno del dibattito politico e intellettuale sostenevano che questo (presunto) diritto avrebbe spalancato le porte all’artificializzazione della riproduzione umana, con l’eugenetica e i bambini su misura (designer babies) (per esempio Corea, 1986; Testart, 2014; Escudero, 2016). Lesbiche e gay stanno scoperchiando il vaso di Pandora del mercato dei bambini su misura, con la rivendicazione dell’accesso alla riproduzione medicalmente assistita anche se fertili. Il gioco vale la candela?

Silvia Niccolai scrive dell’esistenza di una “aspirazione patriarcale” alla cancellazione delle differenze sessuali: “La maternità delle donne lesbiche certamente appartiene alle manifestazioni di un senso indipendente dell’essere madre (dell’essere donna), con cui si mostra e si pratica la capacità femminile di creare esistenza sociale. Tuttavia, mi pare che la maternità lesbica rischi, anche, di risolversi nel segno contrario, per come ci giunge narrata e raffigurata, e cioè all’interno (e come costola?) di una generica, universalistica, rivendicazione delle ‘persone omosessuali’ alla procreazione, una rivendicazione altamente ideologizzata e interamente costruita, dai movimenti che la avanzano, nella logica paritaria e neutra che accompagna il discorso antidiscriminatorio. Gli esiti di questa, così costruita, rivendicazione, sono due: primo, una forte tendenza a fare della maternità una cosa analoga alla paternità (fondendole così entrambe nella ‘genitorialità’, appunto), e, precisamente, a fare della maternità un fatto sociale, analogamente a com’è sempre stata la paternità (secondo millenarie tradizioni la madre è colei che partorisce, fatto ‘naturale’, il padre è il ‘marito della madre’ o colui che con gesti e atti congruenti si assume la paternità: fatto sociale)” (Niccolai, 2015, 16).

La differenza tra la procreazione delle donne lesbiche e degli uomini gay è stata minimizzata e totalmente oscurata all’interno del dibattito politico, sia da parte del movimento LGBT, che dei politici e degli altri partecipanti al dibattito.

Ciò ha significato la cancellazione politica della differenza sessuale tra uomini e donne, come teorizzato da Judith Butler, contro tutte le declinazioni del femminismo. Viene promossa un’immagine datata della donna: oltre alle TRA, un’altra prospettiva adottata per parlare di maternità surrogata consiste nel considerarla come un dono e nel sottolineare l’altruismo, il sacrificio di sé, e in sostanza la negazione di sé, che sono le qualità tradizionali delle donne. Queste ultime lasciano che i loro uteri vengano usati e non necessitano di diritti (Horsey, 2015).

La riproduzione medicalmente assistita si connoterebbe come una “donazione” secondo un libro scritto, presentato ed edito da uomini gay dal titolo In origine è il dono (Carone, 2016), nonostante il fatto che si paga per tutto ciò che descrive (eccetto in rari casi).[4]

Sin dalla fondazione di Famiglie arcobaleno, anche l’accresciuta presenza di madri lesbiche nei dibattiti è stata caratterizzata dal discorso della parità di genere, omettendo di riconoscere l’ovvia differenza tra uomini e donne rispetto a loro ruolo procreativo. Un esempio: “Ci auguriamo altresì che i giudici terranno presente che viviamo in uno Stato in cui coppie sterili eterosessuali ricorrono all’eterologa per mettere al mondo i figli, come fanno le coppie same sex per mettere al mondo i loro” (Famiglie arcobaleno 2015b).

La finzione secondo cui i sessi sarebbero uguali persino nella procreazione risulta grottesca, dal momento che il contributo maschile al neonato è il seme che si stacca dal suo corpo mentre prova piacere sessuale. La retorica neutrale rispetto al genere dell’associazione arriva al punto di affermare che le coppie lesbiche si trovano nella stessa situazione di quelle gay, poiché anche nelle loro famiglie manca un “genitore genetico” (una mamma è quindi solamente un “genitore genetico”).

Un socio di Famiglie arcobaleno dichiarò persino che lei e la sua partner “hanno comprato i propri figli” (intendendo lo sperma) durante il seminario nazionale Udi su Maternità Surrogata. Diritto alla genitorialità o mercificazione del corpo femminile? (Roma, 18.3.2017).

Anche Arcigay invia le donne in prima linea. Le donne di Arcigay hanno scritto: “Ma questa pratica, laddove è ben regolamentata, implica invece donne libere, che fanno una scelta consapevole, anche per motivi economici, ma sempre una scelta”.[5]

Si teme lo sviluppo di un mercato nero che non esiste e non esisterà mai (almeno in paesi in cui vige un effettivo stato di diritto), dato che in un mercato di bambini deve essere legalmente stabilito il legame ufficiale di filiazione con i committenti perché funzioni (Krimmel, 1992). Nel 2017, il circolo di Perugia ha firmato insieme al circolo locale di Arcilesbica un documento comune a favore della maternità surrogata commerciale, e il tema si trova nei documenti politici dei pride di Bari e della Toscana del 2017.

Dopo l’approvazione delle unioni civili è emersa un’opposizione aperta anche all’interno del movimento LGBT. Nel settembre 2016, l’appello di 50 lesbiche contro l’utero in affitto chiese di mantenere nel diritto italiano il principio mater semper certa est e di ripristinarlo completamente in quegli stati che avevano concesso delle eccezioni, sottoscrivendo le campagne internazionali femministe per abolire le leggi istitutive della maternità surrogata: “Questa presa di posizione è necessaria, in un momento in cui l’intero movimento gay, lesbico e trans sembra militare sotto le bandiere del presunto ‘dono’ dovuto alla grande generosità femminile, e avvallare così il commercio di bambini.”[6]

Le firmatarie dell’appello hanno sottolineato i pericoli derivanti dall’introduzione di regole sulla gestazione per altri, che sarebbero l’introduzione stessa della maternità surrogata con l’illusione di poter governare il nuovo mercato salvaguardando le madri retribuite.

Effettivamente, il dibattito sull’utero in affitto ha visto il sollevarsi a sinistra di molteplici voci che condividevano la differenziazione posta da Famiglie arcobaleno (2015a) tra la maternità surrogata nei paesi ricchi e in quelli poveri, richiedendo regole ritenute necessarie per evitare lo sfruttamento di donne indigenti simili a quelle degli USA e del Canada.

Tuttavia anche nei paesi poveri le “surrogate” dichiarano di non farlo (solo) per soldi, e le donne in India sono ben disposte a farlo e non fuggono mai dalle fabbriche di bambini. Possiamo quindi concludere che le prese di posizione soggettive non sono sufficienti a determinare l’esistenza dello sfruttamento, nemmeno a distinguere due forme di maternità surrogata, perché in realtà riflettono solo le condizioni sociali e le ingiustizie sia nei paesi ricchi che in quelli poveri.

L’argomentazione dell’auto-determinazione che deve consentire alla donna di partecipare alla gestazione per altri come portatrice, introdotta da Famiglie arcobaleno, è ripresa da femministe più giovani (si veda la rivista Leggendaria, n.115 “Mamme mie!”).

L’autodeterminazione delle donne è uno slogan femminista degli anni Settanta, quando veniva impiegato per rivendicare l’accesso legale all’aborto. Esattamente al contrario, nella surrogazione l’aborto non è più una decisione della donna incinta ma ne è solitamente ceduta la titolarità ai committenti per contratto (negli USA in modo anticostituzionale) (Danna 2014a).

La gestazione per altri è definita in modo sbagliato come una questione di auto-determinazione mentre rimane un istituto giuridico che istituisce un tipo di gravidanza in cui il neonato non appartiene legalmente alla donna incinta ma a qualcun altro con cui essa ha sottoscritto un contratto prima del concepimento.

Infatti, le coppie gay italiane che sono diventate genitori volevano essere davvero certe di ricevere il dono promesso, essendosi recate in posti come la California o in quelle province del Canada con ordini pre-nascita, dove la legge stabilisce che la “madre surrogata” debba restituire l’intera somma di denaro ricevuta e addirittura pagare una penale nel caso volesse tenere con sé il bambino.

Famiglie arcobaleno e i suoi sostenitori hanno semplicemente negato che questo caso possa accadere (e sia accaduto) (per esempio Lalli 2009). Essi sostengono che le donne sono esseri razionali, non in balia dai loro ormoni (una strana tesi presa da Shalev, 1989), come se l’unico cambiamento nella gravidanza fossero gli ormoni, non un nascituro con il quale la donna che lo porta in grembo stabilisce un legame – o si rifiuta di farlo alienando se stessa dal proprio corpo.

Tuttavia ci sono state molte donne (innegabilmente solo una minoranza delle “surrogate”) che hanno lottato per allevare i propri bambini. Qual è quindi la posizione di Famiglie arcobaleno nel momento in cui la “portatrice” non voglia separarsi dal proprio neonato? È lei che detiene non solo una connessione biologica (anche se l’ovocita non è suo) ma anche una relazione materna con il feto, connotata da aspetti culturali dalle due parti dato che, avendo già sviluppato in utero il senso dell’udito, il neonato riconosce la voce della madre.

Famiglie arcobaleno però è andata ben oltre l’auto-determinazione sottoscrivendo i 12 parametri per l’uso etico della gestazione per altri alla terza conferenza annuale “Men Having Babies”, tenutasi a Bruxelles nel settembre 2016. Le “portatrici” non hanno il diritto di ritirarsi dall’accordo dato che il passaggio di genitorialità dovrebbe avvenire “senza soluzione di continuità”.

Esse sono ricompensate dal dovere simmetrico dei commissionanti di non fare un passo indietro in caso il bambino sia disabile o altrimenti non più voluto (le madri sarebbero allora contente?). Il vero scambio risiede nel fatto che loro percepiscono delle somme stabilite, “un’adeguato compenso monetario, possibilmente all’interno di linee guida e che vada oltre le spese dirette, per compensare la donatrice e la madre surrogata per il rischio, lo sforzo e gli imprevisti associati al loro contributo”[7].

Questo è ciò che intendono con “sicurezza” i sostenitori dell’utero in affitto: “Dunque a oggi gli Stati in cui è possibile realizzare la maternità surrogata con un sufficiente grado di sicurezza e serenità restano oltreoceano” (Lollini, 2011, 303). Proprio in quei paesi, qualora le madri surrogate non cedessero il bambino, verrebbe loro sottratto.

Famiglie arcobaleno, tuttavia, insiste che si dovrebbero importare le buone pratiche statunitensi e canadesi, da non confondere con quanto accade in India o Tailandia. Sostenere che le madri biologiche non dovrebbero poter allevare i propri figli se lo vogliono perché la maggior parte delle “surrogate” ne sono felici, è come dire che nessuno necessita del divorzio intervistando sposi felici.

La libertà è stata un’altra parola d’ordine usata nel dibattito da parte di chi sosteneva l’introduzione normativa di questa istituzione giuridica, quando nel marzo 2017 “Se non ora quando-Libere” si mobilitò nuovamente per la sua proibizione universale. Sono state additate come nemiche delle libertà, ma l’opposizione tra proibizionismo e antiproibizionismo è fuorviante.

I sostenitori della regolamentazione non considerano che l’introduzione di un qualsiasi insieme di regole per legalizzare una specifica forma di gestazione per altri porta poi alla proibizione per legge di tutte le altre forme e di tutti gli altri accordi. Qualora la maternità surrogata diventasse parte integrante del panorama legale e culturale, inoltre, le coppie e i single che non possiedono i requisiti di legge andrebbero all’estero addirittura con facilità maggiore.

  1. Il riconoscimento legale delle famiglie formate da gay e lesbiche

 Nonostante la mancata inclusione della filiazione nelle unioni civili, i tribunali italiani hanno cominciato a riconoscere le famiglie formate da gay e lesbiche, appena prima che il Parlamento iniziasse il dibattito sulla legge Cirinnà.

Il 30 luglio 2014, il Tribunale dei minorenni di Roma ha garantito a una donna l’adozione della figlia della partner applicando l’articolo sui “casi particolari” contenuto nella legge sull’adozione. Tramite questa disposizione, si consente alle coppie non sposate e ai single di adottare, mentre il genitore originale (o i genitori originali) non perde l’affidamento ma lo condivide (art. 44 letter B, l. 184/1983).

La Corte d’Appello ha confermato il giudizio in data 23 dicembre 2015. Tale disposizione è applicata a mezzo migliaio di casi ogni anno, con il fine di tutelare una relazione affettiva che il minore già possiede, solitamente a seguito dell’affido. Nel 2015 è stata richiesta e attribuita a una coppia gay con figli e questa volta non fu fatto ricorso.

Nel 2015, il Tribunale di Palermo ha garantito il diritto di visita a una co-madre separata, dal momento che risultava essere nell’interesse del bambino.[8]

La Corte d’Appello di Trento, nel febbraio 2017, non solo ha riconosciuto l’adozione da parte del partner di un padre gay ma anche la validità del certificato di nascita rilasciato in Canada con il nome dei due padri commissionanti (uno biologico) e nessuna menzione alla madre.

La decisione risultava curiosa: solo il mese precedente, la Corte di Cassazione aveva stabilito che anche nelle nascite anonime le generalità della madre sarebbero dovute essere registrate. Ciò risulta anche in linea con le Direttive 2004/23/CE, 2006/17/CE e 2006/86/CE sulla tracciabilità dei tessuti umani e dei gameti. La motivazione addotta dalla Corte di Trento risiedeva nella natura altruistica della maternità surrogata – una rappresentazione sbagliata della legge canadese che, al contrario, ammette l’esistenza di “rimborsi” che comprendono i mancati guadagni (qualsiasi possa essere la ragione per cui la donna intraprende questo compito).

L’intero movimento LGBT ha accolto con favore la sentenza, con l’eccezione di Arcilesbica e alcune lesbiche che hanno firmato un documento collettivo in cui invitavano gli uomini gay a celebrare il riconoscimento della famiglia di fatto, ma non la cancellazione di una madre.[9] Il Procuratore Generale ha fatto ricorso in Cassazione.

Nonostante tutti questi riconoscimenti, molte coppie lesbiche con figli, spesso appartenenti a Famiglie arcobaleno, intervengono nel dibattito pubblico con atteggiamento vittimista. Ciò colpisce anche i loro figli: una bambina ha affermato alla radio (Radio Popolare, gennaio 2017) che, se una delle sue madri morisse, lei andrebbe in un orfanotrofio (si veda anche la nota 8), mentre al contrario la legge dice che l’affidamento di un bambino può anche essere dato a qualcuno che abbia un “legame preesistente durevole e stabile” (si veda anche Jourdan 2016). In Italia in tema di omogenitorialità regna la confusione più assoluta.

——

[1] Un termine legale che significa agire al posto di un’altra persona.

[2] Ad esempio menzionato in https://www.co-genitori.it/omogenitorialita.php,in Corbisero and Ruspini (2015), come “diritto fondamentale a diventare genitori” secondo lo studioso del diritto Bausone (2016).

[3] La Corte Costituzionale, con la sentenza 162/2014, ha parlato di ciò che è stato volgarizzato come un “diritto a diventare genitori” tramite l’utilizzo dei gameti di un donatore, nel senso che lo stato non poteva impedire a una coppia sterile l’accesso alla riproduzione medicalmente assistita, ma assolutamente non nel senso che dovrebbero esserci garanzie di avere un bambino per le coppie sterili che fanno ricorso all’assistenza di un ginecologo.

[4] Alla presentazione del libro di Carone e Marchi (2017) a Trento, organizzata da ArciGay, Laici del Trentino e Famiglie arcobaleno, un’attivista di ArciLesbica venne fisicamente intimidita e messa a tacere dopo aver espresso dubbi circa la natura generosa della maternità surrogata a pagamento, citando anche una Risoluzione del Parlamento Europeo (2013) contro di essa. La presentazione era stata promossa come occasione di dialogo e riflessione. ( si veda “Gestazione per altri, «oltre il pregiudizio, il racconto». Le storie delle donne che hanno deciso di partorire i figli per altre coppie,” Il Dolomiti, 25.4.2017 http://www.ildolomiti.it/cronaca/gestazione-altri-oltre-il-pregiudizio-il-racconto-le-storie-delle-donne-che-hanno-deciso-di).

[5] Rete donne di ArciGay, senza titolo, http://www.ArciGay.it/wp-content/uploads/2011/01/ALL_B-ARCIGAY-DONNE-documento-GPA.pdf, p. 2.

[6] “Lesbiche contro la GPA: Nessun regolamento sul corpo delle donne” La Repubblica 26.9.2016 (download.repubblica.it/pdf/2016/cronaca/no-regolamenti.pdf).

[7] http://www.menhavingbabies.org/advocacy/ethical-surrogacy/.

[8] Tribunale di Palermo sez. I, 13.4.2015, pubblicato in Diritto di famiglia e delle persone, 2.I.2015, 616.

[9] http://www.danieladanna.it/wordpress/?p=897

 

 

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