I soldi fanno girare il mondo ma da qualche anno oliano anche le ruote di molti carri che sfilano ai cortei dei pride delle grandi città, che appaiono sempre come più feste e sempre meno come marce di protesta. Stiamo (s)vendendo una parte della nostra anima agli interessi, non sempre trasparenti, delle grandi aziende?

 

Quest’anno a New York in occasione dei festeggiamenti dei 50 anni dai moti di Stonewall si sono tenuti due cortei nello stesso giorno. Quello ufficiale intitolato “Heritage of Pride Parade”, è partito a mezzogiorno del 30 giugno da 29th Street e 5th Avenue terminando a 16th Street e 7th Avenue, e prevedeva la presenza di circa 700 gruppi per un totale approssimativo di 150.000 partecipanti. Per sfilare accanto alle centinaia di migliaia di persone raccolte sulle strade adiacenti al percorso, era necessario appartenere a un’organizzazione registrata ufficialmente. Una sfilata più piccola, organizzata da Reclaim Pride Coalition, ad adesione libera e chiamata “Queer Liberation March” si era avviata alle 9.30 dallo Stonewall Inn nel Greenwich Village, ripercorrendo il tragitto del primo gay pride del 1970 e terminando a Central Park.

foto: Erik McGregor

Da un lato una parata piena di carri colorati (molti sponsorizzati e in rappresentanza di grandi società, tra cui la maison Versace con tanto di Donatella più abbronzata che mai) che suonano musica da discoteca, ma anche una selezione all’entrata, poliziotti in divisa e transenne. Dall’altro una marcia separatista di protesta con stendardi fatti in casa, canti politici, un raduno finale vecchio stile nel parco e guardie di sicurezza volontarie. E una dichiarazione d’intenti molto precisa: il pride ufficiale (a New York se ne svolgono vari) è diventato in sostanza una mega festa con troppa sorveglianza, riempita di interessi capitalistici mentre un tempo la maggior parte delle aziende non volevano avere niente a che fare con noi. Non rappresenta quindi (più) il vero spirito della rivolta del 1969 né prende in considerazione (senza sottintesi) i continui e improcrastinabili bisogni della comunità LGBT “ancora sotto attacco quotidiano da parte dell’amministrazione Trump e nei paesi di tutto il mondo”.

foto: Christopher Peterson

Antefatto: il Wall Street Journal il 18 luglio 1991 in un articolo dal titolo “Overcoming a Deep-Rooted Reluctance, More Firms Advertise to Gay Community”, superando una riluttanza profondamente radicata più aziende fanno pubblicità verso la comunità gay, definì quello gay “un mercato da sogno”, e in meno di trent’anni il sogno è diventato una solida realtà.

Invece di parlare delle nostre lotte, delle nostre vite o del pregiudizio che affrontiamo ancora oggi,  parlarono della nostra redditività. Si fece un passaggio epocale da different equal unwanted (diverso uguale indesiderato) a descriverci in termini demografici come un pubblico a cui vendere. Una proverbiale mucca da mungere che chiedeva di essere munta. Le persone arcobaleno e i loro alleati iniziarono quindi a essere accettati come target ricco, fedele ai marchi che apertamente danno sostegno alla comunità LGBT, e sempre più attento alle politiche di diversità e inclusione promosse dalle aziende.

Seguendo questa linea di riflessione diventa opportuno chiarire che essere una persona omosessuale o transgender non è un semplice atto privato da camera da letto, come sbrigativamente si tende a generalizzare per svalutare qualsiasi argomento al riguardo. L’orientamento sessuale e l’identità di genere sono, a tutti gli effetti, un’integrazione cosciente della propria personalità nella vita quotidiana, che abbraccia anche scelte e comportamenti di consumo sempre più pubblici e condivisi.

La presenza, sempre più massiccia da qualche anno, dei colossi dell’economia globale nei cortei dei gay pride delle grandi città è quindi una conseguenza della maggiore visibilità conquistata dalla popolazione LGBT, ma sta facendo emergere una serie di paradossi con i quali è anche opportuno iniziare a fare debitamente i conti. Conti economici, organizzare un (grande) pride comporta dei costi (elevati) da sostenere naturalmente, ma anche politici e infine culturali.

Per il famoso attivista inglese LGBT Peter Thatchell le aziende stanno “degayzzando” il nostro appuntamento più importante, che secondo lui è sempre più irreggimentato, mercificato, costretto in logiche che impediscono, per non dire demoliscono, la spontaneità della partecipazione: se un’associazione non ha soldi non si può permettere di far parte del corteo. Le fondamenta della nostra storia iniziano a barcollare e le lotte per i diritti civili scivolano in secondo piano senza che ce ne accorgiamo.

Se i marchi commerciali vedono il gay pride come un’opportunità di marketing per puntare alla clientela arcobaleno, come lo influenzano? Noi sappiamo che le esperienze LGBT non sono monolitiche ma in realtà questa “accettazione” è riservata solo ai settori più ricchi e privilegiati dello spettro:  maschio bianco, benestante e borghese. Questo è tendenzialmente lo stereotipo gay spacciato dai media per un pubblico etero. Il mercato è interessato a dare rappresentazioni di noi che siano semplici (o conformiste), sufficientemente ammiccanti perché le riconosciamo ma non troppo esplicite da dissuadere il pubblico generalista a comprare i prodotti.

In Italia allora come desiderano che noi siamo o che ci comportiamo pubblicamente? Per quanto riguarda i gay maschi, la mia personale opinione è che non possiamo più essere “perversi sodomiti” ma dobbiamo essere solo “innocenti innamorati”. Forse a causa della legge Cirinnà sulle unioni civili, la rivoluzione sessuale o soltanto il sesso sono diventati ospiti scomodi che è preferibile non invitare, anzi sono proprio da evitare.

Così Danone ha inondato i gay pride di Roma e Milano, quelli più importanti e partecipati in Italia, di bottiglie della linea di “acque funzionali” Vitasnella le Linfe, ma al gusto Unicorno con l’hashtag #lamorealmeglio. La Zuegg ha colorato di righe arcobaleno il contenitore del succo di frutta Skipper, che per l’occasione è “senza pregiudizi aggiunti”. In questi e molti altri casi non compaiono esseri umani reali nella comunicazione. 

Sono dispiaciuto per le donne lesbiche, le persone trans e chi appartiene ad altre lettere o categorie come la classe operaia, che sfilano orgogliose rappresentando proprie specificità (bisessuali, asessuali, intersessuali, migranti, credenti di varie fedi ecc.) perché il mercato non è interessato a parlare anche a (e di) loro in specifico, ma li “contempla” all’interno della generalizzazione dell’acronimo. La narrativa deve però diversificarsi: ci sono esperienze che sono troppo spesso escluse anche se qualcosa sta cambiando. Mastercard offre carte di credito rivolte a persone trans e non binarie, e Renault ha fatto una pubblicità per la Clio che racconta in due intensi minuti la storia d’amore di una coppia di ragazze.

Comunque una pubblicità dell’Amplifon rivolta al segmento delle persone LGBT sorde temo che non la vedremo a breve, anche se si sa che con il passare degli anni i padiglioni auricolari iniziano a funzionare di meno a chiunque… Eppure dai palchi di fine corteo i traduttori in lingua italiana dei segni sono sempre ben visibili. Discriminazioni sottili dal forte impatto: non ti raffiguro perché il tuo peso sociale tende a zero.


Ci tengo adesso a rilevare  che nel 2019 il Milano pride ha avuto la presenza di circa 70 sponsor tra platinum, gold, silver, bronze, media, tecnici e official carrier (ma l’uso della lingua italiana che fine ha mai fatto?), e la cosa non è passata inosservata dato che persino il sito ilGiornale.it pubblicò un articolo dal titolo “Milano Pride, sfilano anche le multinazionali”. 

In particolare due di loro, appartenenti alla categoria ”gig economy”, sono state oggetto di una controversia tutt’altro che infondata innescata dal blog dell’associazione Il Grande Colibrì che al pride era “presente per difendere una visione intersezionale delle lotte, ricordando che la difesa dei diritti LGBTQIA (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) deve andare di pari passo con la lotta contro il razzismo e che la difesa dei diritti civili non può dimenticare la lotta per i diritti politici e sociali. (…)

Difendere i diritti significa anche non tacere sugli sponsor del Pride, tra cui compaiono numerose aziende che sfruttano i propri lavoratori (spesso migranti e richiedenti asilo) e non ne riconoscono i diritti minimi. E c’è anche Google, i cui stessi dipendenti denunciano l’indifferenza nei confronti dei contenuti omofobi, transfobi e razzisti sulla piattaforma di sua proprietà YouTube. Ah, a proposito di libertà e diritti sul lavoro: Google ha annunciato che se i propri dipendenti protesteranno al Pride saranno puniti. Favoloso, eh?

Just Eat, servizio di spedizione pasti (distintosi con la storia d’amore animata tra una fetta di pizza e un ananas, perché “non esistono unioni sbagliate”, N.d.R.) che non rappresenta certo un modello nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori, per il Pride ha ideato un bellissimo slogan: ‘Abbiamo fame di diritti’. E noi lo facciamo nostro, ricordando a Just Eat che i diritti vanno rispettati e non solo strumentalizzati per farsi pubblicità”. 

Il titolo dell’articolo di ilFattoQuotidiano.it che ha ripreso questo post rende però meglio l’idea. “Milano Pride, da Deliveroo a Just Eat: critiche per gli sponsor della parata Lgbt. ‘Ama chi vuoi, basta che ti lasci sfruttare’”. Tecnicamente si parla di rainbow washing, lavare i panni con l’arcobaleno, ossia mostrarsi gay friendly per far dimenticare gli scandali (veri o denunciati). Da Coca Cola ad Amazon passando per Nestlé eccetera chi è senza peccato scagli la prima pietra, o il primo tacco a spillo, o la prima bottiglia di gin…

Scandalosa è quindi la tendenza che i marchi, piuttosto che lavorare con noi ed essere di aiuto alla popolazione LGBT tutto l’anno, trasformano il loro logo con i colori arcobaleno per la settimana o il mese del pride e, nel migliore dei casi, fanno una piccola donazione per una buona causa LGBT. Una concessione alla fin dei conti solo simbolica perché finita la festa non siamo più una priorità o un vantaggio o un profitto. Chi ha provato a bussare alle porte “friendly” per chiedere soldi per progetti specifici sa bene di cosa parlo.

Infine un altro vero scandalo però non capitalistico che io denuncio, è che dal palco alla fine del corteo io avrei voluto (e voglio, e vorrò) che si parli ad alta voce e ci si ricordi anche delle nostre sorelle e fratelli in difficoltà mentre noi a Milano viviamo in una paradisiaca “bolla”. A Tbilisi hanno dovuto annullare il primo evento pride della storia della Georgia, che doveva durare una settimana a giugno, perché il governo non assicurava la sicurezza. Con caparbia e coraggiosa determinazione a luglio hanno organizzato un raduno davanti all’ufficio del ministro dell’Interno, che è durato solo 30 minuti e con meno di 100 persone protette da un cordone invalicabile di agenti di Polizia in tenuta anti-sommossa.

Questa mia riflessione è solo un corto pezzo di filo di una matassa ingarbugliata anche da numerose contraddizioni interne ed esterne presenti a vari livelli della nostra comunità, in Italia e all’estero. In 50 anni dai moti di Stonewall abbiamo fatto progressi assolutamente inimmaginabili, e per me i soldi non sono né buoni né cattivi, dipende come si spendono, ed è meglio che ce ne siano a disposizione piuttosto che il contrario. Facciamo però attenzione a far pareggiare i conti. A me pare che stiamo ricevendo molto meno di quanto non si prendono da noi.