Un’interpretazione magistrale di Renée Zellweger in un film che cattura i giorni di declino di Judy Garland, un’artista dotata di un talento fuori dal comune e nella cui tormentata vita e canzoni s’identificavano molti appartenenti alla comunità LGBT della sua epoca.

 

È di sicuro un caso raro e persino unico forse, quello di essere una venerata icona gay madre di una figlia che diventerà anche lei un’icona gay altrettanto adorata. Judy Garland, madre di Liza Minelli, fu talmente iconica che la leggenda vorrebbe addirittura che la sua morte prematura, a soli quarantasette anni il 22 giugno 1969, sia stata la scintilla che fece scatenare le rivolte di Stonewall alle prime ore della notte del 28, un giorno dopo i suoi funerali a cui parteciparono più di ventimila persone, di cui più della metà omosessuali. La storiografia naturalmente ci dice che non fu così che andarono veramente le cose, ma un mito si costruisce anche sulla fantasia.

Judy Garland fu un’attrice, cantante e ballerina con una carriera durata 45 anni, che raggiunse la celebrità internazionale in ruoli sia musicali, il più famoso probabilmente è Dorothy in Il mago di Oz del 1939 in cui canta Somewhere Over the Rainbow, che drammatici come in È nata una stella del 1954, primo riadattamento di un omonimo film del 1937 che sarà nuovamente presentato nel 1976 con Barbra Streisand e nel 2018 con Lady Gaga nel ruolo della protagonista, per la serie “più gay di così è praticamente impossibile”…   

Nel 1962 la Garland conseguì il Grammy Award per l’album dell’anno con il suo doppio disco dal vivo del concerto che aveva tenuto l’anno precedente alla Carnegie Hall di New York, prima donna a vincere in questa categoria. Nel 2006 il cantante canadese e gay dichiarato Rufus Wainwright le fece un tributo riproponendo la scaletta originale delle canzoni nella medesima sala, e pubblicando un doppio album dal titolo Rufus Does Judy at Carnegie Hall.

Il film biografico Judy del regista Rupert Goold, nei cinema italiani dal 30 gennaio, è basato sul dramma teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter, che descrive le ultime apparizioni pubbliche della Garland a Londra nel dicembre del 1968, raccontando i fantasmi che la ossessionavano e anche la donna indomita che era, resa fragile però dalla dipendenza da farmaci e alcol.

Come narrato in forma di flashback la performer fu vittima delle pressioni psicologiche che Louis B. Mayer, l’incontrastato e dispotico capo degli studi cinematografici Metro Goldwin Meyer, le impose come star infantile che non poteva permettersi di ingrassare, crescere, essere se stessa, e che era soggetta a ritmi di lavoro massacranti e a un severo controllo continuo.

Dopo le prime sequenze con Judy quattordicenne, la diva appare quarantenne nel momento della vita in cui si rende conto di essere intrappolata in una congiuntura senza vie d’uscita. Sfrattata dalla sua suite d’albergo per morosità, desidera ardentemente riuscire a creare una situazione stabile per Lorna e Joey, i figli nati dal terzo marito Sid Luft, ma fortemente indebitata con il fisco americano non sa come fare a dare loro una dimora fissa.

Non potendo quindi permettersi economicamente di rifiutare la possibilità di tenere una serie di concerti, accetta un invito a tornare in scena per cinque settimane tutte esaurite al nightclub The Talk of the Town di Londra. Mettere un oceano tra se stessa e i suoi figli potrebbe compromettere la sua credibilità nella battaglia in corso sulla custodia con il loro padre, ma se potesse non cantare questo la renderebbe meno infelice? La sua voce si è indebolita ma la sua intensità drammatica si è potenziata, e il pubblico anglosassone stravede ancora per lei.

Il film insiste sulle difficoltà e i capricci che l’instabilità psicologica della cantante provocava fuori e sopra il palco ma nella realtà la prima serata fu un successo molto più grande di quanto fa vedere, tanto che il critico del Financial Times scrisse che “lei è la Maria Callas della musica popolare”. Non anticipiamo altro, tranne che l’amore con il pubblico della Swinging London deraglierà in corsa e finirà malamente a insulti reciproci.

La questione di Judy Garland come icona gay non è priva di interesse, al punto che già nel 1967 la rivista Time recensendo un suo spettacolo a New York evidenziava in maniera irrispettosa che “un numero sproporzionato della sua claque notturna sembra essere omosessuale”. Le ragioni addotte per la posizione apicale come divinità del nostro olimpo sono l’ammirazione della sua abilità come intrattenitrice (abilità vocali eccelse, grande presenza scenica, vitalità irresistibile), il modo in cui le sue lotte personali all’apice della sua fama rispecchiavano quelle dei gay negli Stati Uniti e il suo indiscutibile valore come figura camp.

Un’altra famosa correlazione è il termine gergale “amico di Dorothy”, una frase in codice che le persone omosessuali usavano per identificarsi, e che probabilmente si rifaceva al film Il mago di Oz, che inizia in bianco e nero per poi diventare a colori. Il viaggio di Dorothy dal Kansas a Oz rispecchiava i desideri di molti gay di sfuggire ai limiti della vita in bianco e nero di una piccola città di provincia per andare in metropoli grandi e colorate, con personaggi stravaganti che li avrebbero accolti senza problemi.

L’America Film Institute ha inserito Judy Garland all’ottavo posto tra le più grandi star della storia del cinema. Una stella che dal firmamento della gloria, almeno per la comunità arcobaleno, brillerà in eterno.