È stato un film che ha riscosso il consenso di gran parte della comunità LGBT e ora approda in palcoscenico: Mine Vaganti segna il battesimo di Ferzan Özpetek nella regia del teatro di prosa. Riviviamo il sofferto coming out di due fratelli gay tiranneggiati da un padre padrone e succubo dell’ipocrisia perbenista della provincia italiana, insieme a una mamma inconsolabile e una nonna lungimirante.

foto di Romolo Eucalitto

 

È sempre un azzardo trasportare sulla scena un film di grande successo che, oltre ai tanti premi conquistati, ha lasciato un segno forte negli spettatori: vale sia per i musical (spesso assai deludenti) che per la prosa. Sovente ha più fortuna l’operazione inversa. Nel caso di Mine vaganti, il film di Ferzan Özpetek del 2010, il rischio era davvero notevole, anche per la scelta inedita del regista di assumersi l’onere di firmare adattamento e regia. Il suo intento è stato quello di creare uno spettacolo popolare, accentuando la coralità e l’interazione con il pubblico (sono molte le discese in platea degli attori) ma finendo col mettere da parte (consapevolmente o meno) quel suo felice tocco a volte graffiante, a volte malinconico e introspettivo.

La trama è sicuramente nota alla maggior parte dei lettori ma la riassumiamo per i giovanissimi o per i pochi che non hanno visto la pellicola, molto amata anche dal pubblico LGBT. Siamo in una patriarcale famiglia del sud (non più nel meraviglioso Salento oggi troppo “emancipato”) ma in Campania, precisamente a Gragnano, celebre per la pasta, dove infatti Vincenzo Cantone è titolare insieme al figlio Antonio di un noto pastificio.

Il fratello minore di quest’ultimo, Tommaso, millanta di studiare alla facoltà di economia a Roma: in realtà ama la letteratura e coltiva ambizioni di scrittore. In occasione di un ritorno al paese decide di rivelare alla famiglia la verità, oltre al fatto di essere gay e di convivere con il compagno Marco, medico innamorato. Ne parla prima con il fratello che, pur visibilmente sorpreso e turbato, accoglie bene la notizia, escludendo che il loro legame ne possa soffrire. Quando però tutta la famiglia è riunita (il padre, la mamma Stefania, la zia Luciana, single non più giovanissima che, oltre all’alcol, apprezza molto le arti amatorie dei braccianti del luogo i quali di notte le fanno visite clandestine insinuandosi nella sua camera dalla finestra, sempre casualmente lasciata aperta, la saggia nonna, madre di Vincenzo, l’affascinante Alba, socia dell’imprenditore, oltre alla cameriera Teresa) e Tommaso sta per dichiararsi, Antonio lo prende in contropiede, annunciando pubblicamente la sua omosessualità sempre celata e la lunga relazione avuta con un giovane ex dipendente, poi licenziato per evitare pettegolezzi.

Nessuno all’inizio sembra volerci credere ma infine la bomba deflagra: Vincenzo ha un mezzo infarto e scaccia il figlio da casa e dall’azienda. A quel punto Tommaso non trova più il coraggio di imitare il fratello e suo malgrado si ritrova a prenderne il posto, assecondando la volontà del padre, sulle prime barricato in casa perché terrorizzato dai presunti malevoli commenti dei benpensanti. In suo soccorso (almeno nelle intenzioni) giunge Marco insieme ai due amici di Tommaso (non più tre com’erano nel film) Davide e Andrea, decisamente appariscenti, che stanno per esibirsi, ospiti di una vicina discoteca, in un spettacolo di drag queen (inspiegabilmente in compagnia della giunonica Teresa) al quale assiste divertita tutta la famiglia Cantone.

Özpetek inserisce questa aggiunta – non necessaria e non particolarmente riuscita – per poi tornare fedelmente al racconto originale dove sarà la nonna (è lei la “mina vagante”, in passato sposata al padre di Vincenzo ma amante del di lui fratello in una sorta di ménage a tre, già ben consapevole delle preferenze sessuali di entrambi i nipoti), con un colpo di scena a ristabilire il diritto di ognuno a vivere secondo la propria identità e i propri desideri e non nella finzione col solo intento di assecondare l’ipocrisia e il falso perbenismo.

Si è detto del legittimo intento del regista di rivolgersi a un pubblico vasto e giustamente trasversale a scapito però della complessità e dello scavo sui personaggi che forse la vicenda meritava. Nell’affiatato cast l’accattivante Paola Minaccioni dai tempi comici perfetti è la mamma che non si vuole rassegnare alla diversità dei figli; Caterina Vertova, nel ruolo della compianta Ilaria Occhini, è una nonna lucida e generosa anche se l’avremmo voluta un po’ più incisiva; ottima prova per Giorgio Marchesi (il volitivo e fascinoso Antonio) e convincenti Arturo Muselli (Tommaso), Luca Pantini (Marco), Edoardo Purgatori e Francesco Maggi (le “amiche pazzerelle” Davide e Andrea); simpatica la stralunata zia Luciana di Sarah Falanga e sempre in parte l’Alba di Roberta Astuti e la Teresa di Mimma Lovoi.

Impervio era il compito del protagonista-padre padrone Francesco Pannofino dopo che il suo ruolo era stato interpretato magistralmente dall’indimenticato Ennio Fantastichini. Dando per scontata la sua professionalità e capacità di affabulatore, non sappiamo se per scelta della regia o per sua libertà, qui eccede nella caricatura, sfiorando, complice la calata campana, il cliché della macchietta partenopea, specie nei suoi incontri ravvicinati con il pubblico.

Scena elegante e di gran gusto, ideata con originalità da Luigi Ferrigno, indovinati i costumi di Alessandro Lai e giuste luci di Pasquale Mari. Dopo due settimane di sold out all’Ambra Jovinelli di Roma (con innumerevoli chiamate e applausi festosi) dove ci saremmo aspettati qualche presenza LGBT in più, lo si può vedere in tournée al teatro Verdi di Salerno (5-8 marzo), al Comunale di Vicenza (10 e 11/3), Della Fortuna di Fano (13-15/3), Nuovo di Verona (17-22/3), Toniolo di Mestre (24-29/3) e al teatro della Pergola di Firenze (31/3-4 aprile).