Essere migranti LGBT in Italia: una galassia che consideriamo o forse teniamo apposta distante dalle nostre vite. Un cortometraggio documentario, con molta luce e qualche ombra, mette al centro della storia le vicende di due richiedenti asilo omosessuali, e permette di provare a fare un punto della situazione sul tema.

 

Il quartiere Libertà di Bari è uno dei più popolosi e più grandi del capoluogo pugliese, un rione nato all’inizio del ‘900 per offrire nuovi spazi a una città in espansione demografica, e che nel corso degli anni si è andato espandendo a dismisura. Il suo nome fu scelto perché i primi palazzi costruiti presentavano caratteristiche in stile liberty, tra cui le ringhiere di ferro battuto con decorazioni floreali.

Libertà è anche il titolo del documentario d’esordio girato interamente nel 2019 dal regista Savino Carbone in collaborazione con Gabriele Labianca, prodotto da Cooperativa Quarantadue e Centro Documentazione e Ricerca “Möbius”. Il filmato in trenta minuti racconta le storie di B. e C., due migranti omosessuali (un ragazzo gay e una ragazza lesbica) scappati da Senegal e Nigeria, che vivono e “sopravvivono” lì, una zona definita a più riprese dalla stampa come difficile per la massiccia presenza di comunità straniere, e dove l’integrazione è solo una parola.

Libertà però non è solo una parola. Nel cinquantenario dei moti di Stonewall a fare da sfondo alla narrazione è una Bari dove la campagna elettorale per le elezioni europee porta Matteo Salvini in comizio, e il 29 giugno il percorso del colorato corteo del pride. In questo contesto i due protagonisti riflettono sulla loro condizione di richiedenti asilo in Italia, raccontano il lungo e pericoloso viaggio per arrivare in Europa, il clima d’odio crescente nella nostra penisola, l’ostracismo che li spinge a vivere nella macchia, i non facili rapporti con la comunità LGBT.

Libertà è un lavoro importante perché accende un riflettore su un tema, anzi su diversi temi che restano molto sottotraccia: la condizione di migrante forzato/a (persona che ha lasciato il proprio paese d’origine e si trova in un paese di cui non ha la nazionalità), pericoli del viaggio, lavoro e sfruttamento, difficoltà a integrarsi ecc.

Eppure è comprovato uno sforzo più che decennale di molte volontarie e volontari arcobaleno che si occupano di immigrazione e omosessualità, che seguono e aiutano queste persone nel percorso tipo Odissea di ottenimento dello status di rifugiato o rifugiata (persona giunta in un paese di cui non ha la nazionalità che ha chiesto la protezione internazionale e tale stato è stato riconosciuto in base a dei motivi specifici).

Un impegno indefesso che non è abbastanza all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica e che forse è “sottovalutato” all’interno del movimento LGBT italiano. Facile essere retorici e limitarsi a dire che si potrebbe o si dovrebbe fare di più, ma è auspicabile una maggiore condivisione delle esperienze e delle buone pratiche che già esistono.

In rete ho trovato due documenti in italiano. Una pubblicazione di Arcigay dal titolo IO Immigrazioni e Omosessualità – Tracce per Operatrici e Operatori che “raccoglie e presenta gli estratti degli interventi del seminario di formazione tenutosi a Bologna, nell’ottobre 2008. Il seminario, come questo materiale, è stato pensato per operatori e operatrici di servizi pubblici e privati rivolti a migranti, per aprire una riflessione, nuova in Italia, sulla condizione dei migranti LGBT. Ha lo scopo di dare alcuni spunti sulla questione dell’accessibilità, dell’efficacia e della inclusività di tali servizi anche per le persone LGBT, di dare alcune informazioni sulle regole per la protezione internazionale e una panoramica sulla normativa antidiscriminazione”.

Il secondo interessante materiale è costituito dalle diapositive presentate a un seminario tenutosi a Roma a ottobre 2013 da parte di Giorgio Dell’Amico, referente nazionale Arcigay – Immigrazione/Asilo (migra@arcigay.it), dal titolo Seminario sulla valutazione delle domande di asilo dei richiedenti asilo LGBTI – Costruzione di un ambiente sicuro per i richiedenti asilo LGBTI che in maniera sintetica ma incisiva fa capire quali sono gli argomenti inclusi in questa tematica.

Nel 2017 l’Agenzie dell’Unione Europea per i diritti fondamentali (FRA) pubblicò una relazione dal titolo Current migration situation in the EU: Lesbian, gay, bisexual, transgender and intersex asylum seekers (L’attuale situazione migratoria nell’UE: richiedenti asilo lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali), di cui ho personalmente curato la traduzione in italiano su richiesta di una componente della rete che costituisce il Progetto I.O. Immigrazioni e Omosessualità.

In questo report si dice tra l’altro che solo pochi stati membri dell’UE hanno linee guida nazionali specifiche per l’intervista a persone LGBTI; secondo le organizzazioni non governative (ONG) i funzionari che si occupano dell’asilo politico tendono ad avere opinioni stereotipate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere; nella maggior parte degli stati membri dell’UE non esistono strutture ricettive speciali per le persone LGBTI; la formazione su specifiche vulnerabilità LGBTI è fornita casualmente al personale del centro di accoglienza, generalmente da ONG competenti, e opuscoli informativi delle sono spesso disponibili, ma di solito non in tutte le lingue necessarie; non ci sono linee guida sufficienti sulla fornitura di assistenza sanitaria specifica a persone transgender che hanno già iniziato il trattamento ormonale nei loro paesi di origine (l’interruzione del trattamento in tali casi può avere gravi conseguenze).

A causa dell’epidemia da COVID-19 o “coronavirus” l’associazione di volontariato Il Grande Colibrì, in collaborazione con Les Cultures, Naga, Certi Diritti e varie altre realtà che hanno permesso di condividere il loro materiale, ha messo a disposizione per persone migranti e asilanti informazioni in diverse lingue (dall’italiano semplificato al pashtu, dal rumeno al wolof…). Quest’azione esemplifica l’incredibile lavoro che il cosiddetto “terzo settore”, anche LGBT, svolge sul campo.

Tornando al documentario, cosa significa quindi essere liberi o libere, e quanto ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo in quanto italiani? Nei due paesi dell’Africa sub-sahariana presi in considerazione, ma non solo in essi, le comunità LGBT sono costrette a fare i conti con un’intolleranza diffusa e codici penali che prevedono il carcere e, in alcuni casi, persino la lapidazione. Eccezione d’eccellenza del continente è il Sudafrica, primo paese al mondo a mettere fuori legge le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nella costituzione post-apartheid, e il quinto a legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

“In Italia pensavo di ricevere aiuto, che qualcuno mi stesse vicino, mi proteggesse. E invece non ho documenti, non ho un lavoro, non ho una ragazza né amici. Nessuna libertà. E quel che è peggiore è che non so come trovare una ragazza. Non so come si comporta una lesbica in Italia. Non posso conoscerle perché stanno per i fatti loro” dice lei. “L’Italia è un paese di libertà ma non per me” dice lui.

La questione dell’inclusione sociale dei migranti LGBT è complessa perché molto sfaccettata e inoltre, praticamente sempre, lo “straniero” è un oggetto retorico del discorso altrui: la loro vita è spiegata da qualcun altro privandoli/le della soggettività politica. L’italiano è in grado di portare avanti un pensiero autonomo mentre lo straniero no. Questo “difetto” è in parte riscontrabile anche nel documentario, che fa sorgere legittimamente dei dubbi o quanto meno dei punti interrogativi.

Nel documentario C. non manca di rilevare che lei non desidera rispondere a domande sulla sua sfera privata dei sentimenti e della sessualità, perché non le ritiene pertinenti alla richiesta d’asilo. Ha davvero senso, se farlo le permetterebbe maggiormente di essere creduta e quindi accolta? Il racconto, terribile, di B. è tutto autentico o è un “luogo comune” tramandato a più riprese?

Abbiamo chiesto un’opinione a Diego Puccio e Rahel Sereke, volontari dal 2009 del Progetto I.O. Immigrazioni e Omosessualità, perché l’informazione può diventare senza volerlo disinformazione.

Le attività della Progetto I.O. si rivolgono alle persone immigrate LGBT+ per fornire loro servizi di orientamento, supporto sociale, aiuto nella richiesta di protezione internazionale a coloro che fuggono dal paese di origine a causa di discriminazioni, violenze e persecuzioni dovute all’orientamento sessuale. Oltre a questo promuovono periodicamente attività culturali rivolte anche alla comunità LGBT+ autoctona, con lo scopo di sensibilizzare i propri membri alle problematiche legate alle discriminazioni multiple.

Lo Sportello opera insieme a varie organizzazioni e a persone singole che lavorano a vario titolo a sostegno delle persone immigrate in Italia, per contribuire alla costruzione di una rete che agisca in modo sinergico.

Abbiamo trovato la fotografia del film molto bella, ma la sceneggiatura del film cade spesso in un immaginario molto comune in Italia: pietista e vittimizzante dei protagonisti. Nel racconto sembra che ci sia un tentativo di rendere le storie dei protagonisti, di cui non conosciamo i nomi, le storie di tutte le persone immigrate LGBT+, quantomeno quelle provenienti dalla Nigeria e dal Senegal. Invece il diritto di asilo è individuale e ogni richiedente asilo oltre ad avere un volto che lo rende riconoscibile ha un nome, una sua storia, un suo vissuto che non è sempre così drammatico. Se la scelta di generalizzare era frutto, invece, del tentativo di fare di questo mediometraggio anche un atto politico, forse l’Italia, il movimento LGBT+ e Salvini potevano non rimanere solo uno sfondo apparentemente impermeabile, anche considerato che fanno parte di quegli elementi del contesto sociale che hanno inciso e incidono nella vita delle persone immigrate (vedi la storia del personaggio femminile).

Dal racconto della ragazza sembra emergere una realtà in cui tutte le Commissioni siano ostili ai richiedenti asilo LGBT+, che tutti i membri non siano preparati, che le associazioni non facciano nulla, che non esistono gruppi attivi di immigrati/e LGBT+ in Italia, e questo racconto ci interroga molto sulla forza dei legami. La nostra esperienza, ci conferma che quando un/a richiedente asilo viene supportato in modo adeguato nella stesura della propria storia, facendo emergere gli aspetti cruciali che lo/la hanno portato a lasciare il suo paese, e non quello che ci si aspetta che racconti una persona immigrata LGBT+,  difficilmente riceve un diniego da parte della Commissione. L’elaborazione del racconto chiama in causa la capacità reciproca di ascolto, e seppur è vero che risulta difficile comprendere perché qualcuno possa giudicare più o meno attendibile la tua storia personale, se il racconto riesce ad attingere al vissuto personale e interiore, alle esperienze (non necessariamente sessuali) legate agli aspetti determinanti nel vivere il proprio orientamento LGBT+, incluso il disorientamento, la gioia, oltre che la sofferenza spesso silenziosa che si subisce nella solitudine della crescita, le possibilità di essere credut* sono reali. 

Non è assolutamente facile raccontare la propria storia se hai subito dei grandi traumi, quindi è importante e necessario un supporto che possa fare da filtro tra la persona e la Commissione.

In Italia sono presenti realtà di persone immigrate LGBT+ fortemente in contatto, che si supportano nonostante le innegabili difficoltà che devono affrontare quotidianamente. A Milano gli/le stessi/e ragazzi/e hanno per esempio organizzato quest’anno (2019, N.d.R.)il loro primo carro migranti al pride!

Purtroppo osserviamo che spesso quando si tratta la tematica Immigrazione (ancora di più quella LGBT+), si approfondisce poco l’argomento, si ha una visione precostituita che porta con se stereotipi e pregiudizi nei confronti dell’altro (esiste sempre un altro da sé!), oppure si preferisce essere guidati da una regia guidata che ricostruisce la stessa vita delle persone fuori da quel  contesto che rende quella singola storia una persona e solo quella persona. 

Gabriella Friso, anche lei da anni impegnata in prima fila con il Progetto I.O. e nel direttivo dell’Associazione Redicale Certi Diritti, vuole condividere una riflessione diversa.

A differenza di quanto hanno dicono Diego e Rachele, purtroppo devo segnalare che ultimamente è sempre più difficile riuscire a ottenere una protezione per i/le richiedenti protezione. A partire dal decreto Minniti-Orlando e ora ancor più con il decreto Salvini è sempre più difficile avere ascolto sia in Commissione che in Tribunale, e anche le persone che noi seguiamo non sempre riescono a ottenere un permesso. Le disposizioni normative sono la maggior causa: mancanza di un grado di giudizio, l’audizione della persona può non esserci in Tribunale, le sezioni specializzate spesso lo sono solo a parole… A questo si aggiunge che spesso i/le richiedenti asilo a fronte della paura di non ottenere il permesso di soggiorno spesso inventano storie contradditorie e/o incredibili che sono palesemente false, e in questa situazione di chiusura è sempre più difficile convincerli/le a raccontare la verità. Anche questo pesa.

Aggiungiamo, inoltre, le difficoltà a intercettarli/le per noi che ce ne occupiamo come volontari/rie e, per loro fortuna, almeno noi lavoriamo in maniera corretta e competente. Bisogna purtroppo segnalare che esistono alcuni avvocati, pochi ma ben organizzati, che arrivano a pubblicizzarsi anche su YouTube, che speculano su di loro inventando soluzioni che non esistono, carpendo la loro buona fede e i pochi soldi che possiedono, per poi abbandonarli/le senza garantire loro l’assistenza a cui hanno diritto. 

Dopo avergli inviato questi commenti, abbiamo chiesto una replica al regista.

Mi rendo conto che la carenza di questo tipo di lavori possa portare a pensare a un tentativo di universalizzazione delle storie. Tuttavia Libertà nasce per raccontare le storie di B. e C., a Bari, durante i mesi del governo giallo-verde. È uno spaccato abbastanza specifico, contingente.

Sono assolutamente d’accordo con il passaggio “Invece il diritto di asilo è individuale e ogni richiedente asilo oltre ad avere un volto che lo rende riconoscibile ha un nome, una sua storia, un suo vissuto che non è sempre così drammatico”. Ho parlato di B. e C. perché sono le persone a cui più mi sono affezionato durante le settimane di frequentazione dello sportello Arcigay di Bari, confrontandomi, ovviamente, con i volontari dell’associazione.

I loro nomi non sono riportati per un motivo molto semplice. È stata una loro richiesta esplicita, i due protagonisti temevano ripercussioni nella quotidianità delle loro vite. Ho provato a insistere (puoi immaginare quanto sia stato a tratti svilente privare il racconto di alcune parti importanti, come le espressioni, il volto) ma non ho avuto successo, perciò abbiamo effettuato le riprese in modo da tutelare la loro identità e garantire la loro sicurezza. Sì, fortunatamente non tutti i migranti che ho incontrato in Arcigay hanno storie così drammatiche. E meno male! Nessuno merita di cumulare sofferenze su sofferenze.

Il documentario, come la maggior parte dei lavori di questo tipo, non ha una vera e propria sceneggiatura, bensì un trattamento per temi. Questo è stato scritto incrociando le interviste delle due commissioni sostenute dai protagonisti, i resoconti e alcune relazioni fornitemi dai volontari di Arcigay, elementi di vita privata di cui sono venuto a conoscenza frequentando B. e C. per un certo periodo.

Riprendo e rispondo ad altri punti che Diego e Rachela fanno emergere, cercando di sintetizzare le questioni per dare la mia risposta. Per loro dal mio racconto emergerebbe una realtà generalmente ostile ai richiedenti asilo LGBT+ e una scarsa o insufficiente rete di supporto.

Qui il discorso si fa complesso e gioverebbe ricordare due cose. La prima è che i ragazzi hanno sostenuto la seconda commissione nei giorni in cui il Ministero dell’Interno era retto da Matteo Salvini. In Puglia c’è stato un aumento enorme dei dinieghi. In secondo luogo, al netto del contesto politico, i ragazzi hanno bisogno di una reale assistenza. Per questo non posso che condividere il passaggio “Non è assolutamente facile raccontare la propria storia se hai subito dei grandi traumi, quindi è importante e necessario un supporto che possa fare da filtro tra la persona e la Commissione”.

Il problema è a monte: in Puglia non c’è una rete di assistenza forte, solida e con una grossa esperienza alle spalle. Il tutto è delegato allo sportello Arcigay, gestito da pochissimi volontari che fanno fatica a seguire i tantissimi ragazzi che incontrano. La mancanza di una rete fa sì che i veri intermediari con le commissioni siano gli avvocati. E la maggior parte dei ragazzi si rivolge a cooperative di legali a basso costo, il cui unico consiglio spesso si riduce a “fatti la tessera di Arcigay”. E se “In Italia sono presenti realtà di persone immigrate LGBT+ fortemente in contatto, che si supportano nonostante le innegabili difficoltà che devono affrontare quotidianamente”, purtroppo a Bari questo contatto non c’è.

Mi si contesta anche che avrei approfondito poco l’argomento e che mi sarei basato su una visione precostituita o stereotipata, generalizzando una realtà che, invece, è poliedrica e coinvolge molti piani in contemporanea (personali, interculturali, politici…). Rispetto i giudizi, ma mi permetto di respingere le accuse di poco approfondimento, ho studiato a lungo la situazione barese.

“Sfalsamenti” non ce ne sono: ho fatto riferimento direttamente ai racconti dei ragazzi e alle relazioni delle audizioni di commissione, e quanto allo sguardo dico che il mio non è solo un occhio eterosessuale ma anche bianco, occidentale, relativamente agiato (per quanto appartenga a quella classe media sempre più provata dalla crisi), e comunque di un uomo che può godere di tutti i diritti garantiti dallo Costituzione.

Ci sono sempre tante differenze tra narratore e soggetto narrato, a meno che non coincidano. Le storie possono essere raccontate in tantissimi modi diversi, tanti quanti sono i soggetti che potenzialmente possono narrarle. Sicuramente sarei molto curioso di osservare la stessa storia raccontata da un’altra persona.