A partire da una vasta ricerca d’archivio e dall’esame di oltre 600 film, un saggio ricostruisce i rapporti tra omosessualità e cinema italiano tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta. Una storia ricca di colpi di scena tra palesi ostilità e complici piaceri non così nascosti.

 

Sono uomo da libri e non da cinema, quindi la recensione di questo saggio di storia del cinema trascurerà l’aspetto “cinema” (su cui non sono affatto un esperto) per concentrarsi sull’aspetto “storia” (che è il campo di ricerca che ho scelto).

Ciò è possibile in quanto Omosessualità e cinema italiano, dalla caduta del fascismo agli anni di piombo, edito da Utet e scritto da Mauro Giori (ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna Storia e critica del cinema, N.d.R.), non è un semplice elenco di titoli di film in ordine cronologico, sia pure commentato, bensì un ampio affresco basato su ricerche di prima mano sulla società italiana che produsse, accolse e anche ostacolò tali film.

 

Il primo aspetto che ho notato è stato proprio l’originalità della ricerca storica che sta alle spalle della ricostruzione di Giori. Fino a oggi abbiamo avuto pochissime ricostruzioni della storia dell’omosessualità in Italia nel dopoguerra: fra quanto mi viene a mente sui due piedi citerei i lavori (ahinoi tutti parziali) di Gianni Rossi Barilli, Andrea Pini, Stefano Bolognini e Dario Petrosino, a cui si è aggiunto di recente quello meritorio del giovane Jacopo Cesari.

Il lavoro degli storici e delle storiche ha infatti teso finora a concentrarsi o sull’anteguerra, o sugli anni successivi alla nascita del movimento lesbico e gay (1971), lasciando un “buco” proprio negli anni coperti da Giori. Io stesso ammetto di stentare a percepire come “storia” questo periodo, probabilmente perché fatico, a differenza dei figli delle mie sorelle e dei loro coetanei, a collocare nella stessa zona mentale l’estinzione dei dinosauri, la morte di Giulio Cesare e i film che vedevo io da bambino…

Per il suo lavoro Giori ha fatto lo spoglio sistematico d’una serie di periodici di allora, scelti in quanto rappresentativi d’una visione del mondo, come l’omofobissimo Il borghese. Inoltre, o soprattutto, ha fatto lo spoglio d’archivio degli atti (inediti) della Commissione di censura. Non sorprenderà dunque il fatto che quanto egli propone, nelle analisi e nelle conclusioni, sia in gran parte nuovo e inedito.

Particolarmente rinfrescante è l’abbandono della falsariga de Lo schermo velato di Vito Russo, che per molti, troppi decenni ha fatto da palinsesto alle ricerche storiche sul cinema e l’omosessualità in Italia (se un debito ha Giori verso la critica gay di lingua inglese, le sue citazioni ci portano semmai a Richard Dyer). Basterà dire che qui il Codice Hays viene a malapena nominato, e ovviamente non perché Giori non ne conosca l’esistenza, ma perché egli dimostra oltre ogni possibile dubbio che le linee-guida valide per il cinema italiano furono diverse, spesso molto diverse, da quelle in vigore per il cinema hollywoodiano.

Dare per scontato che le regole applicate nel centro dell’impero americano siano sempre automaticamente valide ovunque, come ormai fanno tutti gli storici dell’omosessualità, specie quelli queer (ho incontrato un autore di saggi su omosessualità e diritto che non sapeva cosa fosse il Codice napoleonico!), ha prodotto seri danni alla comprensione della vicenda storica del nostro Paese.

Il libro di Giori descrive l’Italia che esce dal fascismo con un apparato censorio momentaneamente fuori gioco a causa della sua impronta dichiaratamente fascista, e con un forte partito comunista determinato a impedire che sia ricostruito tale e quale sotto altro nome. L’apparato repressivo ebbe così un breve periodo di confusione, che spiega come mai il lavoro di Giori inizi immediatamente dopo la Liberazione, in un periodo cioè che d’istinto giudicheremmo ben poco fertile per il tema omosessuale.

Al contrario Giori dimostra come, nel breve intervallo tra la Liberazione e l’imposizione di una riorganizzata Commissione censura cinematografica nel 1949/1950, artisti come Luchino Visconti approfittassero del nuovo clima per proporre richiami e atmosfere omoerotiche (come in Ossessione, boicottato dai fascisti nel 1943 ma ripresentato dopo la Liberazione) o addirittura in modo esplicito, come nella regia sempre di Visconti di Adamo di Marcel Achard, addirittura nel 1945.

Ossessione

 

Noi tendiamo in genere a leggere in modo “storicista” l’evoluzione della condizione omosessuale in Italia, dal fascismo alla nascita del movimento lesbico e gay, come una graduale apertura a un tema che il fascismo aveva reso tabù. La realtà è però diversa. Se è vero che l’ultimo periodo fascista costituisce un “buco nero” per il tema omosessuale, l’autentico nemico della liberazione omosessuale nel dopoguerra fu la Chiesa cattolica, a cui occorse qualche anno per sbarazzarsi del contrappeso comunista e che, dopo esserci riuscita, negli anni Cinquanta improntò della sua visione delle cose la politica e la legislazione italiana. Sono quindi gli anni Cinquanta e una parte rilevante degli anni Sessanta a costituire il vero “periodo buio”, nei quali prevale grazie al predominio della Democrazia Cristiana l’idea cattolica per cui la menzione stessa dell’omosessualità fosse oscena, al punto da doverne proibire la menzione esplicita perfino per parlarne male o condannarla.

Giori documenta come da questo momento in poi in Italia si siano contese la scena del Potere due distinte strategie di repressione dell’omosessualità. La prima, clericale (e maggioritaria), puntava alla scomparsa dalla percezione pubblica del fenomeno omosessuale, cercando d’impedire di nominarlo o mostrarlo sotto qualsiasi luce. Questa concezione, che emerge con chiarezza dai verbali inediti della Commissione di censura che Giori cita, legge l”omosessualità attraverso la categoria del “pudore”, affermando che esso veniva offeso anche dalla semplice apparizione d’un personaggio omosessuale in un film, fosse pure per condannarlo e prenderlo in giro.

Questa strategia fu contraddetta da quella clerico-fascista che, inizialmente convinta del fatto che i “pederasti” andassero più derisi che presi sul serio (come fece Leo Longanesi), ricalibrò la sua visione del mondo quando iniziò a prendere ispirazione dall’unica nazione in cui i fascisti non erano stati sconfitti nella Seconda guerra mondiale, l’America maccartista, quella del Lavender scare.

Con un lavoro certosino di citazioni Giori dimostra che questa fazione (che agisce nella coscienza d’essere minoritaria, ma che gode di appoggi sufficienti a garantirle una potenza di fuoco non trascurabile) non condivide l’idea che sul tema dell’omosessualità vada colata una cappa di censura e silenzio. Al contrario, nessuno negli anni Cinquanta e Sessanta si rivelò tanto ciarliero sul “pericolo omosessuale”, fino all’ossessione, quanto i periodici neofascisti (dai quali non a caso Giori trae un flusso inesauribile di notizie e polemiche, molto spesso censurate o trattate più sbrigativamente nella stampa d’altro indirizzo politico).

Secondo l’estrema destra italiana l’atteggiamento censorio democristiano era controproducente, perché permetteva al marcio di estendersi inosservato. Il pericolo omosessuale andava invece denunciato gridando con maschia determinazione anche dai tetti, se necessario, senza lasciarsi sviare da pruriti scandalizzati degni di beghine pudibonde. Ecco perché i periodici di destra si rilevano tanto preziosi per comprendere lo svolgimento del dibattito di quel periodo, essendo rapidissimi a denunciare e riferire nei dettagli qualsiasi “pericolosa” apertura o concessione agli “invertiti”.

Ciò emerse in particolare dalla “stagione degli scandali”, molti dei quali dimenticati, innescati deliberatamente dall’estrema destra sulla questione omosessuale, dallo scandalo Feile nel 1960 a quello dei “Balletti verdi” di Brescia nello stesso anno.

 

E qui si colloca l’unico mio lieve dissenso con l’analisi di Giori (assieme al suo giudizio un po’ severo verso il povero Maurizio Bellotti, che non era un critico cinematografico e faceva solo quel poco che poteva, ma almeno faceva, il che non era poi così “poco”) che per il resto condivido in toto.

Giori ritiene, infatti, che i “Balletti verdi” si siano gonfiati fuor di proporzione grazie allo spazio dedicato loro dalla stampa comunista per mettere in imbarazzo la Democrazia Cristiana nelle elezioni previste di lì a poco. Questo aspetto è oggettivamente vero: i comunisti approfittarono dello scandalo con entusiasmo, soffiando sul fuoco con vero godimento a ogni arresto di sacerdote o industriale. Tuttavia l’innesco dello scandalo partì – come sempre in quegli anni – non dai comunisti ma dall’estrema destra, che intendeva appunto mostrare con questo esempio quanto la gestione debole e indecisa della Democrazia Cristiana permettesse al marciume di dilagare senza ostacoli. Da questo punto di vista credo anzi che meriterebbe lo studio il parallelo con lo scandalo maccartista di Boise, Idaho, nel 1955, che sospetto essere stato il modello a cui i neofascisti si ispirarono per Brescia. Neofascisti ai quali lo scandalo scappò di mano, è vero, ma dopo averlo innescato loro. Comunque, come si vede, è un dissenso di poco conto.

Ciò non toglie che i comunisti, sulla questione omosessuale, si dimostrarono per lo più ignavi sino al 1985, ostentando sovrana indifferenza verso un (non) problema che giudicavano morale e non politico, “sovrastrutturale” e quindi destinato a risolversi da solo dopo la rivoluzione. Al più, si dimostrarono tolleranti verso i “loro” omosessuali, come Pasolini o Visconti, e li difesero quando erano attaccati dai fascisti (e smettiamola una buona di rinfacciare l’espulsione di Pasolini: un maestro che “si fa” gli alunni non vorrebbero averlo fra gli iscritti neppure i partiti d’oggi!).

Tuttavia, nel dibattito sull’omosessualità, non si distinsero affatto per un minore moralismo puritano e non ebbero un ruolo particolare, se non indirettamente, con la loro azione di resistenza alla censura clerico-fascista e il supporto a singoli intellettuali, che però combatterono per conto proprio una battaglia che non coinvolse mai il partito stesso.

Sgonfiatosi lo scandalo dei “Balletti verdi”, il decennio successivo registrò una logorante guerra di trincea fra il mondo del cinema, che escogitò mille trucchi per nominare l’innominabile, e una censura sempre più in difficoltà nell’arginare un mondo che stava cambiando a velocità sempre maggiore. A poco servirono gli ultimi tentativi (nuovamente da parte dell’estrema destra) di creare artificialmente scandali omosessuali con il caso Braibanti (1968) e il caso Lavorini (1969). Durante questo estremo (quanto vano) tentativo scoppiò comunque il Sessantotto, e nel 1971 la tensione sospesa si coagulò infine nella nascita del movimento di liberazione omosessuale.

In questa fase di guerra di trincea, negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, ebbero un ruolo crescente gli intellettuali (scrittori, giornalisti, registi) laici e comunisti, che presero sempre più posizione contro le censure, costringendole ad arretrare a poco a poco. Un ruolo importante ebbero registi come Luchino Visconti e Pierpaolo Pasolini (e in misura minore anche Giuseppe Patroni Griffi) o scrittori come Giovanni Testori e Alberto Arbasino, per cui Giori rivendica un ruolo di deliberati “alfieri” del diritto alla visibilità pubblica d’una minoranza che, appunto, non aveva diritto a farsi vedere.

 

Fu proprio in questi anni che si forgiò la capacità dei registi italiani (ovviamente esaminati da Giori uno per uno e film per film) di alludere senza nominare, di farsi capire senza dover “dire” in modo esplicito. La semplice caratterizzazione di un personaggio come “sensibile” o “artistico” era sufficiente a caratterizzarlo con un pubblico che condivideva la chiave di lettura.

Si dibatte spesso (in particolare notando quanta fatica faccia la generazione LGBT più giovane a decifrare quelle chiavi di lettura, che spesso giudica improbabili o troppo astruse per essere vere) su fino a che punto il pubblico dell’epoca vedesse in quei film ciò che oggi vediamo noi, in termini di allusioni, ammiccamenti, “non detto”. Giori dimostra, con puntuali citazioni e pareri della commissione di censura nonché dei giornali, che il pubblico dell’epoca era perfettamente capace di decifrare i messaggi in codice, e che non lo era solo il pubblico generale, ma in particolare lo era il pubblico omosessuale, che da un certo punto in poi iniziò dietro le quinte a premere per ottenere uno spazio di visibilità e rappresentazione a cui riteneva di aver diritto.

Mi si perdoni qui una considerazione mia personale: la creazione in questo periodo d’un linguaggio allusivo, che permette di affermare e negare allo stesso tempo, fu un’operazione talmente riuscita che i registi italiani, per pigrizia mentale o incapacità di elaborare ulteriormente, vi si attardarono per decenni anche dopo che la necessità di usarlo era venuta meno (penso a un caso agghiacciante come quello di Chiamami col tuo nome, del 2017, capolavoro di omofobia inconscia: sono stato alla presentazione milanese e mi ha soffocato l’insistenza ossessiva del regista sul fatto che non si tratta d’una storia omosessuale).

 

Tale atteggiamento rivela l’interiorizzazione d’una visione e d’una morale che noi definiamo “cattolica”, ma che forse più che cattolica è eterosessual-mediterranea (in base al paradosso che ho denunciato più volte, chiedendomi se gli italiani siano omofobi perché sono cattolici, o se piuttosto siano cattolici perché sono omofobi, come i casi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni rendono evidente quasi ogni giorno).

Anni fa mi ero dilettato in un’analisi di un sottogenere popolare di immagini, il videoclip, notando come anche due decenni dopo che i registi e i cantanti americani avevano ormai sbriciolato il tabù a discutere e mostrare la realtà dell’omosessualità, quelli italiani si attardassero invece (perfino per canzoni dal testo esplicitamente LGBT) a rimestare nel pentolino delle sole categorie che sembravano conoscere: il dramma suicidale, la macchietta patetica, o l’ambiguità stantia del “chissà cosa sarà mai questo bizzarro gusto sessuale alieno e sconosciuto e ignoto a tutti”. E termino qui la mia parentesi.

Giori conclude la sua rassegna esaminando da un lato come forme “vili” di cultura popolare (in particolare la disprezzatissima pornografia) abbiano contribuito allo “sdoganamento” della figura dell’omosessuale nel cinema, dall’altro come la nascita del movimento lesbico e gay abbia prodotto una nuova “critica militante” che ha riletto la produzione cinematografica precedente e contemporanea attraverso le lenti dell’impegno politico, sostenendo a gran voce la necessità della nascita d’un cinema (e d’un teatro) gay “militante”, che in parte si apprestò a produrre.

Non fu un rapporto semplice, e rivelò incomprensioni da entrambi i lati. Né l’ovattata aristocrazia di Visconti né il sottoproletariato criminale di Pasolini corrispondeva, infatti, al mondo urbano e piccolo-borghese da cui provenivamo noi giovani militanti, e ciò fu puntualizzato in modo surciglioso da un lato, e dall’altro.

Attraverso un esame delle riviste gay militanti di quegli anni, Giori dimostra l’apertura di questo gap, fermandosi tuttavia a prima che si tentassero forme di ricomposizione (peraltro avvenute fuori d’Italia: si pensi solo a Derek Jarman, James Ivory o Rainer Werner Fassbinder).

Fra gli altri aspetti che si apprezzano in questo studio (a parte la completezza e novità della documentazione proposta, frutto di decenni di “scavo” certosino e meticoloso) è la scelta di un linguaggio piano e didascalico, che si rivolge anche al lettore non specialista.

Vista la destinazione accademica del testo, di tanto in tanto l’autore non può fare a meno di ricorrere a una mezza pagina di considerazioni tecniche, ma tali inserti si limitano allo stretto indispensabile e non appesantiscono mai la lettura. Il libro gode pertanto sempre di una notevole chiarezza espositiva, risultando avvincente perfino per chi, come me, non è un cinefilo assatanato e non ha quindi mai sentito nominare la gran parte dei film analizzati.

Proprio la necessità di sintesi ha però impedito di estendere oltre misura le dimensioni della ricerca, costringendo a rimandare a interventi futuri l’analisi dettagliata del contributo del mondo laico borghese, che grazie alla piccola ma accanita pattuglia radicale ebbe un influsso importante nel cambio di mentalità verificatosi in Italia verso l’omosessualità.

Un esame a tappeto de Il Mondo, Panorama, Espresso, ABC, simile a quello smisurato e defatigante che Giori ha compiuto con Lo specchio, Meridiano d’Italia o Il borghese, resta insomma ancora da compiere, e potrebbe riservare sorprese (da quanto viene citato da Giori stesso, la stampa laica non fu affatto aperta sin dagli inizi al tema omosessuale).

Ovviamente, come anticipato, il raccolto sarebbe meno abbondante rispetto a quello delle testate di destra, che erano patologicamente ossessionate dal “pericolo rosa”. Ma si tratta più di un’ulteriore possibilità di ricerca che di una lacuna, visto che le testate appena citate sono comunque utilizzate e citate da Giori, sia pure in modo meno sistematico.

In conclusione, consiglio la lettura di questo saggio, che apre un orizzonte culturale e storico completamente nuovo, restituendoci le radici d’un passato che in Italia è tutt’altro che finito, aprendo nel contempo inattese strade nuove per ulteriori ricerche.