Che cosa resterà di noi come popolazione o comunità o movimento LGBT (e altre lettere) a seguito della (prima) ondata della pandemia da coronavirus? Impossibile dare una risposta esaustiva o precisa, ma alcune riflessioni sono auspicabili.

 

Dovremmo essere tutt* più vicin* in questo momento particolare della storia, e invece io sento l’universo arcobaleno più lontano da me. Questo sentimento può essere un campanello di allarme: quali strade prenderemo nella cosiddetta “nuova normalità”, che non si sa quando inizierà o cosa significhi? Questa personale riflessione andrà a zig zag e sarà irrimediabilmente imperfetta.

Per moltissime persone LGBT la quarantena e il dover restare in casa il più possibile ha provocato o acuito situazioni di disagio come una maggiore esposizione alla solitudine o alla violenza (fisica o psicologica) o alla discriminazione. C’è chi ha perso il lavoro o altre sicurezze, e chi si è ritrovato con un accesso limitato ai servizi e alle terapie di cui ha bisogno ecc. Queste voci (questi bisogni, questi problemi) si perderanno nel vento? Forse le nostre voci non sono diventate più silenziose ma soltanto più silenziate del solito dai media generalisti e questo ci rende (pericolosamente) più invisibili.

Ciò di cui non si parla non esiste, e penso che poche persone si siano poste la questione che sono stati i locali gay i primi ad aver dovuto chiudere i battenti a causa del lockdown, e che alcuni di essi forse saranno i primi a soccombere non riaprendo più.

Amato e odiato al contempo, soppiantato in buona parte dall’arrivo dei siti d’incontri e dalle app sui telefoni cellulari (e adesso persino dai profili su Instagram), il cosiddetto “circuito commerciale” è un’entità che vive sottotraccia ed è sparpagliata in maniera non uniforme lungo la Penisola, osservando che da Roma in giù l’associazione ARCO, che li riunisce e gestisce la tessera che permette di frequentarli, non ha molti affiliati.

 

I circoli gay danno da lavorare a molte persone e permettono di conoscersi, e soprattutto divertirsi, a molte di più ma si basano sull’avvicinamento sociale per così dire, non di certo sul distanziamento. Stare in una sauna con una mascherina sul viso è improponibile e in mancanza di clienti queste attività sono destinate al fallimento. Senza questi luoghi d’incontro non virtuale se ne andrà via sia un pezzo di storia sia un po’ della nostra libertà.

Andando a tutto un altro capo, cosa avranno patito le coppie o i singoli che affidandosi alla maternità surrogata si sono ritrovati nel limbo di avere un figlio o una figlia appena nati o nate o che stavano per venire al mondo in un’altra parte del pianeta, e che non potevano più far arrivare in Italia perché i cieli e i confini erano stati blindati?

Quest’anno sarà collegat* in rete che celebreremo l’appuntamento annuale con il pride, ma non potrà essere la stessa cosa, perché non esisteremo fisicamente marciando tra le strade delle città per rivendicare le nostre diverse istanze. Come saremo visibili ancora (ed è la visibilità che rende possibile un movimento), se già prima e dopo una manifestazione del nostro orgoglio non sappiamo bene “chi siamo” e “cosa vogliamo adesso” davvero ?

Porpora Marcasciano (sociologa, attivista per i diritti umani e presidente onorario del Movimento Identità Transessuale) in un’intervista pubblicata su Wired dice che le diversità si declinano al plurale. La nostra comunità, in effetti, è unica perché è un’enorme sezione trasversale della società umana con persone che sono LGBT di ogni estrazione socio-economica, etnica, religiosa, di abilità fisica o mentale, di corporatura ecc. Questo rende infinitamente complicato definirci come gruppo se non attraverso generalizzazioni o degli stereotipi, e comporta i suoi bei problemi che a volte nascondiamo sotto lo zerbino.

 

Anche al nostro interno, infatti, troviamo sessismo, razzismo, transfobia o semplice disinteresse. Discettiamo di “intersezionalità” ma alzi la mano chi conosce gli acronimi BAME (Black, Asian and Minority Ethnic) e BIPOC (Black, Indigenous and People of Colour). Quante identità presenti nel Bel Paese sono incomprese, non rilevate, sottovalutate o ignorate, e cosa faremo veramente per la loro inclusione?

Per molti marchi che in Italia da qualche anno ci fanno gli occhi dolci ma solo a giugno (staremo a vedere se anche questo fatidico giugno…), noi siamo globalmente potenziali consumatori e consumatrici da attrarre insieme a coloro che gravitano intorno a noi come familiari e amici, colleghi ecc. Molte aziende attuano politiche interne di diversità e inclusione, cosa sana e giusta, ma per organizzare i nostri festival di cinema o di teatro, piuttosto che altre attività culturali in altri momenti dell’anno ci farebbero comodo anche le loro sponsorizzazioni. Apparire ogni tanto friendly senza essere supportive sempre non deve più andarci bene. Essere assimilati non deve significare essere ammansiti.

 

Dal punto di vista della salute mi ha colpito un post di Giovanni Dall’Orto (storico, giornalista e militante gay) che ho intercettato su Facebook per caso. “Un amico più giovane mi ha detto che adesso ha capito come si sia sentita la mia generazione all’epoca dello scoppio della crisi dell’Aids. In realtà no. Fino a quando la sua generazione non avrà iniziato ad aggiornare di tanto in tanto la rubrica di Whatsapp per cancellare i nomi dei morti, come facevano noi con le agendine del telefono. Purtroppo fino alla scoperta delle cure per noi militanti gay, che eravamo nell’occhio del ciclone, era andata così. E spero ovviamente che non si ripeta mai più”.

Tra i vari commenti in risposta trovo commovente quello di Vanni Piccolo. “Una differenza la voglio ricordare. Giustissimamente attorno al corona virus sono scattati attenzioni solidarietà cure ricoveri provvedimenti media ecc. Noi e ripeto Noi, intendendo la comunità LGBTI inizialmente siamo stati lasciati soli, condannati, stigmatizzati, evitati, licenziati. E abbiamo pianto da soli i nostri morti, ascoltato omelie umilianti, riappropriazioni di figli da lungo tempo negati. Ministri, cardinali, giornalisti hanno usato espressioni crudeli e disumane. Oggi se vai in televisione per raccontare il coronavirus sei GRANDE. Negli anni 80 il giorno dopo nella metro ti scansavano, ti insultavano, ti additavano: an vedi er frocio che ieri stava in tv…. pussa via……”.

Mentre la Germania ha messo al bando le cosiddette terapie riparative, nera più che in bianco e nero è la fotografia del Bel Paese sviluppata dalla Rainbow Map 2020, lo strumento attraverso il quale ILGA Europe censisce gli avanzamenti in termini di affermazione dei diritti delle persone LGBT nell’area del Vecchio Continente. L’Italia è al trentacinquesimo posto in una classifica di 49 nazioni…

Una norma vincolante in contrasto alla violenza di natura omofotransfobica, sia essa fisica che verbale, cambierebbe inevitabilmente anche la cultura all’interno del nostro paese, soprattutto quando ci sono gruppi di persone che pensano che questo problema non esiste, e peggio che il problema è che non potrebbero più attaccarci liberamente. Una proposta di legge doveva essere discussa in Parlamento alla fine di marzo ma le urgenze e le emergenze sono diventate altre, e dobbiamo tenere accesi i ceri votivi fino a luglio.

 

Come superare in un’ottica di lungo periodo e almeno in parte tutto questo? Secondo me allargando i nostri orizzonti, collaborando insieme tra nuove e vecchie generazioni di persone che si dedicano all’attivismo e alla militanza, senza eccessi di personalismo o “senso del territorio”, evitando di coesistere come isole senza ponti di collegamento, senza dialogo insomma. Uniti e unite tra noi possediamo un potere d’azione davvero trasversale (siamo ovunque) e siamo in grado di generare un cambiamento più che mai necessario.

In contrapposizione alla “fobia” nei nostri confronti promuoviamo l’omotrans-filia per favorire amicizia, supporto e corretta conoscenza di chi siamo, chi amiamo, chi vogliamo essere. Facciamolo tra noi che siamo una popolazione, una comunità o un movimento LGBT e altre lettere. Soprattutto facciamolo con tutte le persone con cui condividiamo la vita su questo pianeta, perché questo capitolo della nostra storia non sarà concluso fino a che non saremo tutt* ugual* dappertutto.