Cos’è la favolosità se non un modo per affrontare a testa alta le difficoltà della vita? Per chi si fosse lasciato sfuggire la notizia vi presentiamo una militanza televisiva LGBT impensabile fino a pochi anni fa.

 

L’annuncio da parte del canale televisivo FX, acronimo di Fox eXtended, della messa in onda negli Stati Uniti a giugno 2018 di Pose, nuova fatica di Ryan Murphy, genio rivoluzionario noto per aver creato serie di grande successo come Nip/Tuck, Glee, American Horror Story e Feud seppe subito far parlare di sé. Candidata ai Golden Globes 2019 nella cinquina delle miglior serie TV drammatiche dell’anno, Netflix Italia ha annunciato la sua programmazione a gennaio.

Se lo sfondo della storia è la volontà di rappresentare l’ambiente newyorkese dei cosiddetti ballroom, è di certo la possibilità di poter vantare il cast con il maggior numero di personaggi e attrici transgender della storia (più di 50) che non poteva passare inosservato.

Prendendo in prestito l’incredibile documentario cult del 1990 Paris Is Burning di Jennie Livingston, Murphy porta sul piccolo schermo tutto quello che concerne un mondo underground tanto interessante quanto abbastanza inedito nel nostro paese.

I ball sono una subcultura LGBT afroamericana e latina dove uomini, donne, persone transessuali e drag queen appartenenti a delle house (case nel senso di maison di alta moda) gestite al vertice da delle “madri”, competono in vere e proprie gare di stile, danza e bellezza a tema emulando altri generi sessuali o altre categorie sociali per vincere dei trofei. È qui che è nato il fenomeno del vogueing, danzare imitando le pose delle modelle davanti alla macchina fotografica o il loro incedere sulle passerelle, diventato conosciuto a livello planetario grazie al suo accaparramento da parte di Madonna in una delle sue hit più celebri.

Una “casa” in realtà è composta da una famiglia non biologica di persone che convivono spesso sotto lo stesso tetto unite contro povertà ed emarginazione.

Arrivati anche a Milano, i ball hanno visto una massiccia partecipazione di giovani artisti queer provenienti da tutto il mondo. Questi piccoli grandi eventi erano e sono ancora dei veri e proprio punti di ritrovo per una parte della comunità LGBT ancora poco rappresentata e a volte emarginata al nostro stesso interno.

La trama di Pose si svolge negli anni 1987-88, un momento storico dove la cultura del vogueing si sta diffondendo a macchia d’olio, dove gli amori e le amicizie sono distrutti dal virus dell’HIV e il presidente Reagan non muove un dito al riguardo, dove Donald Trump è ancora solamente un potente uomo d’affari che rappresenta comunque l’incoerenza dell’America repubblicana.

Un mondo governato dal machismo e dal sessismo, dai soldi e dalla ricchezza da ostentare, ma anche dalla voglia di redimersi e di sfondare in una società ostile non troppo diversa da quella di oggi. Se adesso due persone omosessuali possono sposarsi e diventare genitori, quanti però sono sinceramente aperti alle diversità?

Dalla serie FX emerge, infatti, uno spaccato sociale piuttosto poliedrico. L’intreccio ruota intorno a Blanca Rodriguez, intraprendente ragazza transgender, che dopo aver scoperto di essere sieropositiva vuole lasciare il suo segno nella società dei ball e decide di fondare la propria casa House of Evangelista, in omaggio alla top model Linda Evangelista, scatenando la rivalità della sua madre e mentore Elektra Abundance.

Primo protagonista comprimario è Damon, diciassettenne afroamericano promettente ballerino che, cacciato di casa dai suoi genitori dopo la scoperta della sua omosessualità, approda a New York con uno zaino e poco più di un pugno di dollari in tasca. Infine c’è Angel, prostituta che s’innamora del cliente sbagliato: un giovane rampante funzionario della Trump Tower felicemente sposato con figli.

Insieme a loro un calderone di altri personaggi secondari incarnano appieno svariate declinazioni di disuguaglianza, in uno scenario dove capita che gli stessi gay diventino nemici delle ragazze trans, tanto da arrivare a cacciarle dai loro bar per soli uomini.

La serie di Ryan Murphy aperta alla differenza sicuramente lo è, e che Pose apporti una vera e propria rivoluzione del linguaggio LGBT in televisione lo si evince da come la rappresentazione dei personaggi più caratterizzanti della nostra comunità venga profondamente cambiata, adottando un linguaggio tanto semplice quanto ultramoderno.

Il ragazzo effemminato spesso rappresentato come una macchietta fastidiosa lascia il posto al giovane emarginato dalla famiglia pronto a farsi strada con fatica e sudore nel difficile mondo della danza.

La sieropositività perde quell’accezione iperdrammatica fine a se stessa e alla funzione noiosamente catartica dei prodotti audiovisivi arcobaleno, per andare invece incontro alla voglia di redimersi, di lasciare un solco profondo nella società, di continuare a condurre la propria vita.

Ma il vero cambiamento sta nella rappresentazione della disforia di genere, finalmente presentata come una condizione naturale con le sue complessità, i suoi rischi e le sue virtù, spesso problematica a causa della società non della persona.

Se questo inverno abbiamo finalmente potuto assistere al cinema a un amore spensierato, dolce, naturale e volutamente molto elegiaco con Call Me By Your Name di Luca Guadagnino, Pose ci mostra invece una società senza filtri, reale e soprattutto non solo di razza bianca. Una collettività LGBT a  tutto tondo che non si arrende di fronte ai soprusi, pronta a combattere e soprattutto a farlo come un gruppo coeso e unito.

L’ingrediente vincente di Pose è stato il creare un prodotto culturale che possa ispirare le nuove generazioni attraverso la storia della nostra comunità, inserendo sottotraccia messaggi politici LGBT come salute, solidarietà, discriminazione interna, temi mai come oggi così attuali. Murphy aveva più volte evidenziato il suo pensiero con i suoi lavori citati in precedenza, e soprattutto con quel capolavoro che è The Normal Heart, basato sull’omonima opera teatrale del 1985 di Larry Kramer sull’arrivo dell’epidemia dell’AIDS.

Tuttavia ora lo sceneggiatore e regista statunitense punta in alto: vuole rappresentare una legacy, un gruppo di emarginati sociali che hanno qualcosa da raccontare e che costruiscono una nuova ideologia di famiglia. L’unione fa la forza, ed è proprio tramite questa nuova concezione di parentela che i protagonisti di Pose riescono a raggiungere la nostra tanto ambita accettazione.

Questa volta le eroine e gli eroi sono meno benestanti dei giovani usignoli di Glee o della coppia che aspetta un figlio tramite gestazione per altri in The New Normal. Sono meno spaventosi dei personaggi di American Horror Story o meno hollywoodiani di Bette Davis e Joan Crawford antagoniste in Feud. Sono personaggi lontani anni luci da ciò che l’audiovisivo LGBT fino a quest’anno ci ha proposto, ma straordinariamente più veri.