L’analisi di un intenso rapporto tra una madre e suo figlio gay in un romanzo che, uscendo dai binari comuni, ci mette di fronte alle scelte che dobbiamo affrontare per vivere le nostre vite.
Un rapporto madre-figlio gay (Beatrice-Antonello) che è intenso tanto quanto è irrisolto e vincolante. Due secondi di troppo (ed. Il Seme Bianco), romanzo di Andrea Mauri, ci narra una vicenda, relegata quasi sempre in spazi chiusi (la casa di cura, in cui è ricoverata la donna e l’appartamento che i due hanno condiviso per anni), carica di sottintesi e di non detti, dove i due personaggi eseguono un rituale o, meglio, un gioco (della memoria, ma non solo) che ripropongono e rinnovano di giorno in giorno, condizionati da un passato ambiguo e misterioso.
L’autore ci presenta due psicologie complesse e antitetiche che si scontrano in un andirivieni di flashback volutamente ingannevoli. Da una parte abbiamo un’anziana, prossima alla morte, malata di una forma di demenza senile che si accompagna però a sprazzi di violenta lucidità; una primadonna capricciosa, possessiva, eccessiva e intrattabile, cocciuta e stravagante, che ha fatto una certa fortuna come cartomante e veggente all’interno di un ristretto giro di clienti, un circolo esoterico composto da sole donne. Dall’altra il figlio, remissivo, timido la cui omosessualità è nota ma che, con lei, non si è ancora concesso la dignità di un coming out “ufficiale” e liberatorio.
Inquietanti e tormentose sono le “apparizioni” notturne alle quali Antonello assiste da bambino da parte di un’entità paranormale forse evocata e liberata dalle capacità medianiche della madre. E interessante e straniante è il gioco che fanno i due, che consiste nel ricreare le atmosfere e la spensieratezza camp di trasmissioni del passato come Canzonissima e di personaggi (nonché icone gay) di una televisione che non c’è più, come Gabriella Ferri, la Carrà e la Goggi.
Intorno a loro gravitano solo altri due personaggi. Troviamo Gabriele, neuropsichiatra della clinica, scostante ma anche incuriosito, e al contempo impressionato, dal rapporto dei due protagonisti. Si aggiunge a loro Silvia, cugina di Antonello, all’apparenza premurosa nei confronti della zia ma assai impaziente di “ereditarne” le capacità divinatorie.
In questi spazi e atmosfere decadenti, tra incursioni nell’onirico e nel paranormale da salotto borghese (che ci riportano al Fellini di Giulietta degli spiriti) e con un personaggio femminile che sembra una summa delle madri strindberghiane, un’importanza evidente la assumono gli oggetti, che si tramutano a loro volta in simboli: abbiamo un vecchio modello di televisore arancione Brionvega in bianco e nero (che Antonello utilizza per le proprie innocenti imitazioni en travesti delle annunciatrici RAI, a uso e consumo di Beatrice), un’onnipresente boccetta di Poison di Dior (la cui fragranza insistente pervade ogni ambiente e si insinua inesorabile in ogni contesto); c’è una sedia a sdraio gialla che Antonello usa quando passa le notti in clinica con Beatrice, e c’è, ovviamente, il mazzo dei tarocchi con tutti i suoi 78 Arcani.
E poi abbiamo tante suggestioni e citazioni artistiche, anch’esse, lì non a caso. Sono utili ad Antonello per crearsi una visione sicuramente distorta, ma più rassicurante, della realtà: Michelangelo (in un’inedita reinterpretazione della sua Pietà), Van Gogh, Jan Veth (e le sue “Tre sorelle”) e le navi che solcano mari, guarda caso spesso in tempesta, dei dipinti di Turner.
Puoi spiegare ai lettori di Pridemagazine del titolo del tuo libro?
I due secondi sono quelli che la ricerca scientifica definisce necessari a scegliersi o rifiutarsi. Quando i due secondi si prolungano oltremodo, accade qualcosa di imponderabile nelle vite dei prescelti. Chi sono i prescelti nel romanzo? Questo non lo sveliamo.
Gabriele chiede ad Antonello per quale motivo lui assimila ad ogni immagine un quadro celebre. Lui risponde in questo modo “Mi sforzo di fare associazione perché attraverso la bellezza dell’arte rimuovo le parti brutte che l’occhio si rifiuta di vedere”. Che cosa significa?
È un meccanismo che Antonello mette in moto per non assuefarsi a quei modi di agire e di pensare che impoveriscono lui e la società in cui vive. D’altronde questo meccanismo è naturale: il protagonista dice che l’occhio spontaneamente rifiuta il brutto. Non basta però. Bisogna fare uno sforzo ulteriore. Ogni volta che siamo investiti da qualcosa che non condividiamo, che non appartiene al nostro modo di vivere e di pensare, dobbiamo provare a trasformare l’energia negativa che tali azioni o pensieri comportano in influssi positivi, che ci aiuteranno a essere più accoglienti. È una fase storica complessa quella che stiamo vivendo. Ci piovono addosso parole, idee, pensieri elementari, che spesso sfociano nella volgarità. Il rischio appunto è quello di assuefarsi, di smettere di indignarsi quando si oltrepassa il limite della decenza. Antonello si rifugia nella bellezza, nei quadri che conosce e studia, nelle rappresentazioni che lo aiutano a reagire a ciò che non gli piace. La bellezza è ovunque, lo sforzo è quello di cercarla anche quando sembra impossibile una via d’uscita.
In Due secondi di troppo troviamo un ristretto di numero personaggi, vicende che si svolgono in pochi spazi (e tutti chiusi), situazioni “cariche” di elementi drammatici. Come vedresti un’eventuale trasposizione teatrale del tuo romanzo?
La tua analisi mette in evidenza gli elementi peculiari di una rappresentazione teatrale. Se li hai individuati, vuol dire che si potrebbe provare a portare in scena la storia. Ogni volta che assisto a uno spettacolo e che mi coinvolge al punto di soffrire con i personaggi e di portarmi a casa il peso delle emozioni e dei dolori dei protagonisti, riconosco la potenza dell’arte teatrale. Mi piacerebbe provarci anche con Due secondi di troppo.
A quali autori ti ispiri di solito quando scrivi e a chi ti sei ispirato, in particolare, per questo romanzo?
Mentre scrivo mi torna in mente la voce di scrittori quali Michael Cunningham e David Leavitt. Dei loro romanzi mi colpisce il modo di narrare gli amori omosessuali in piena naturalezza. Con loro non si parla più di genere letterario legato all’omosessualità, ma di narrazione dell’amore in senso ampio. Nella scelta di ambientare il romanzo in una clinica, mi sono ispirato a Notturno indiano di Antonio Tabucchi. L’ospedale che lui descrive è completamente diverso dalla clinica che ospita Beatrice. In quell’ambiente angusto si sentono scricchiolare sotto i piedi gli insetti che corrono lungo i corridoi del nosocomio. La clinica di Due secondi di troppo è un luogo protetto, sicuro, ma per certe atmosfere ricorda il romanzo di Tabucchi.