Una campagna internazionale sulle reti sociali ha coinvolto persone sieropositive di tutto il mondo che danno informazioni pubbliche su di loro e la loro vita con HIV. In questo modo si oppongono alla stigmatizzazione e diffondono la notizia che l’HIV non è trasmissibile se si è in terapia.

 

Tra il mese di settembre e ottobre sui social media è stata lanciata la campagna #NormalizingHIVChallenge, alla quale hanno partecipato migliaia di persone che vivono con HIV “mettendoci la faccia”, ovvero inserendo una proprio foto corredata da alcune informazioni (nome, età, provenienza, occupazione, figli, stato relazionale, stato sierologico e stato “ARV” ovvero in cura con antiretrovirali sì/no/da quando).

Il successo di questa iniziativa testimonia la necessità di continuare a rendere visibile la questione dell’HIV nonostante la conoscenza medica recente abbia ampiamente dimostrato che le persone con HIV in terapia e con una carica virale azzerata non possano trasmettere il virus, da cui lo slogan U=U, Undetectable equals Untransmittable.

Sulla base di questo nuovo paradigma, un numero crescente di persone che vive con HIV definisce il proprio stato come ‘non rilevabile” (undetectable) e l’assunzione delle terapie per chi vive con HIV è diventata una forma di prevenzione (TasP – Treatment as Prevention) contro la diffusione del virus.

 

Applicazioni d’incontri quali Grindr hanno seguito la stessa logica, inserendo la categoria undetectable (“non rilevabile” nella versione italiana) tra le opzioni a disposizione degli utenti. La domanda che sorge allora è perché, nonostante questi cambiamenti, migliaia di persone che vivono con HIV sentono ancora la necessità (culturale, politica e sociale) di dovere “metterci la faccia”?

Tra il 2018 e il 2020 ho condotto uno studio [1], finanziato dalla Commissione Europea, sui percorsi di vita di diverse generazioni di uomini gay con HIV in Inghilterra e Italia.

È importante sottolineare che quando parlo di “generazioni” non mi riferisco solo a generazioni anagrafiche ma anche a “generazioni HIV”: persone che vivono con HIV dagli anni ’80 o primi anni ’90 quando non c’erano ancora le terapie antiretrovirali efficaci; persone che vivono con l’HIV dalla metà degli anni ’90 quando sono state diffuse le terapie efficaci che però avevano vari effetti collaterali, rendendo la sieropositività spesso uno “spettacolo visibile” [2]; persone che hanno contratto il virus negli ultimi 10 anni, quando gli effetti collaterali delle terapie sono diminuiti notevolmente e le linee guida per l’assunzione delle terapie sono cambiate, per cui le terapie vengono iniziate fin da subito.

Le due generazioni non sono equivalenti: nel corso delle mie ricerche ho intervistato vari uomini gay che adesso hanno tra i 50 e i 60 anni che vivono con HIV da meno di dieci anni.

Tra i metodi di raccolta dei dati utilizzati c’era anche un questionario (in doppia lingua, italiano e inglese), e alcuni dei risultati emersi rilevano appieno l’importanza che ha ancora oggi il “metterci la faccia” per chi vive con HIV in Italia. Il 68.8% dei rispondenti che vivono con HIV nel nostro paese, infatti, ha dichiarato di aver vissuto episodi di discriminazione nel luogo in cui vive a causa del proprio stato sierologico. Il 76.6% ha affermato che questo sia stato realizzato da parte di un altro uomo gay o bisessuale.

 

Come già discusso da numerosi studi condotti in vari paesi, nonostante la propria storia la comunità gay non risulta necessariamente accogliente verso le persone con HIV. Questa considerazione è rafforzata anche da un altro dato proveniente dal questionario. Alla domanda “Quanto sei d’accordo con la seguente affermazione? Nel luogo dove vivo le persone sieropositive sono discriminate anche all’interno della comunità gay e bisessuale”, il 46.3% si è detto d’accordo e il 17.5% completamente d’accordo.

Uno degli ambiti principali in cui avvengono discriminazione e rifiuto è quello sessuale. Infatti, alla domanda “Quanto sei d’accordo con la seguente affermazione? Nel luogo dove vivo le persone omosessuali/bisessuali sieronegative hanno paura di fare sesso con uomini sieropositivi“, il 23.2% si è detto completamente d’accordo e il 59.3% d’accordo.

Tale dato trova conferma anche nelle risposte alla domanda “Pensi che l’HIV abbia avuto un impatto sulla tua vita sessuale?”, alla quale il 60.9% dei rispondenti ha indicato l’opzione “sì, negativo” e il 20.3% l’opzione “sì, molto negativo”. Considerare l’impatto della percezione culturale e sociale dell’HIV sulla sfera del desiderio e della sessualità è molto importante per comprendere le dinamiche di percezione del sé e del proprio corpo di chi vive con HIV.

Se la percezione dello stigma da parte della stessa comunità omosessuale e bisessuale è ancora particolarmente forte, meglio non va a livello sociale più complessivo. Il 78.1% dei rispondenti alla domanda “Trovi che il luogo dove vivi sia accogliente verso le persone HIV positive?” ha infatti risposto di no. Il senso di rifiuto da parte della società porta molte persone che vivono con HIV a scegliere la via del silenzio rispetto al proprio stato sierologico (spesso si parla di “secondo armadio” o second closet).

 

Il 90.6% dei rispondenti alla ricerca ha attestato, infatti, di rendere noto il proprio stato sierologico mai (45.3%) o a volte (45.3%). A essere percepiti come maggiormente ostili sono il posto di lavoro e la famiglia: l’85.7% dei rispondenti ha dichiarato di non aver condiviso con nessuno il proprio stato sierologico sul posto di lavoro; il 52.4% non lo ha invece condiviso con nessuno in famiglia.

Considerare la dimensione del closet è estremamente importante, perché molto gravoso dal punto di vista psicologico in quanto comporta la continua gestione dell’informazione stigmatizzante. Allo stesso tempo rafforza la percezione sociale della sieropositività come condizione di cui doversi vergognare in quanto associata a determinati comportamenti “rischiosi” o “immorali”.

Tra i rispondenti al questionario campagne come U=U o l’introduzione della profilassi da pre-esposizione (PrEP) non vengono necessariamente viste come portatrici di maggiore accettazione sociale. Alla domanda “Quanto sei d’accordo con la seguente affermazione? ‘L’accettazione sociale verso le persone sieropositive è migliorata grazie alla PrEP e alle campagne sulla non trasmissibilità del virus come U=U (Undetectable=Untransmissable)’”, il 6.7% dei rispondenti si è definito completamente d’accordo, il 31.9% d’accordo, il 34.4% ha indicato l’opzione ‘non so’, il 23.9% si è definito in disaccordo e il 3.2% completamente in disaccordo.

La frammentazione nelle risposte a quest’ultima domanda non va letta come invalidante degli sforzi fatti da attivisti e gruppi impegnati nella lotta all’HIV che mettono al centro delle proprie rivendicazioni la PrEP (che in Italia, come altri paesi, ha scatenato un accesso dibattito che ha spesso presso le forme dello slut shaming, rimproverare di essere di facili costumi (la traduzione letterale è “umiliare la puttana”, N.d.R.) all’interno della comunità omosessuale) e U=U.

Al contrario, questo dato sottolinea la necessità di continuare a insistere con queste campagne, inclusa quella di “metterci la faccia” richiamata all’inizio, in modo da rendere il vivere con l’HIV una condizione di cui si possa parlare senza generare paure e rifiuto anche all’interno della comunità gay.

 

[1] Il titolo del progetto è Analysing the migration choices of HIV-positive gay men in England and Italy (HIVGAYM), progetto n. 747110. Il progetto è stato ospitato dall’Università di Leicester (Regno Unito).

[2] Cit. A Persson (2005) Facing HIV: Body shape change and the (in)visibility of illness in Medical Anthropology 24(3): 237-264.