Il desiderio di maternità di una coppia di donne e la voglia di raccontare una favola a un figlio ancora piccolo per spiegargli tutto l’amore che lo ha portato alla luce, in una commedia a tematica lesbica che agita il dibattito rimasto in sospeso sui diritti delle Famiglie Arcobaleno.

 

È uscito nelle sale il giorno di San Valentino il primo lungometraggio di Karole di Tommaso Mamma+Mamma, presentato alla Festa del cinema di Roma 2018 nella sezione indipendente “Alice nelle città” dedicata alle nuove generazioni. La storia si basa sulla reale esperienza di vita della regista e della sua compagna Ali, vezzeggiativo di Alessia, interpretate da Linda Caridi e Maria Roveran, che poco più di due anni fa hanno avuto Leòn con l’inseminazione artificiale effettuata in una clinica di Barcellona.

La trama è semplice: due donne innamorate cercano di trovare i mezzi economici per realizzare il loro sogno di avere una figlia con la procreazione assistita in Spagna. Per potersi permettere di andare più volte oltralpe, perché all’entusiasmo del primo tentativo non riuscito seguiranno molte peripezie, escogitano di trasformare in un bed and breakfast il piccolo appartamento a Bari che condividono per cause di forza maggiore con Andrea l’ex fidanzato di Ali, un simpatico finto tonto che non si assume mai alcun tipo di responsabilità, soprattutto economica, e di cui non riescono a sbarazzarsi.

Nella loro già scombinata vita quotidiana iniziano quindi a sommarsi domande e dubbi di ogni tipo, ma soprattutto originali turisti e svariati co-protagonisti (che si rifanno tutti a persone reali), tra cui il tenerissimo, umile e semplice, accogliente nonno di Karola, con cui lei farà coming out in mezzo agli olivi secolari ottenendo una reazione sorprendente.

La pellicola ha più registri che s’intersecano lasciando ogni tanto piacevolmente spiazzati: si passa dal sogno surreale, dove prendono vita ansie, emozioni e ossessioni della protagonista, alla realtà dei rapporti di famiglia e di amicizia e della precarietà economica che mina alla base l’attuale generazione delle persone trentenni.

Varie scene sono girate nel paese di nascita di Karole e sono parlate in dialetto molisano stretto, molto consonantico e incomprensibile (Guardalfiera, in provincia di Campobasso, è “miss n gopp a na cullin cú ciel all’azzurin“) ma vengono in soccorso i sottotitoli in italiano.

Karole, che prima di studiare cinema di finzione ha studiato documentario, parte da se stessa per narrare una storia che conosceva per averla vissuta. L’ha scritta sotto forma di favola per suo figlio quando sarà grande ma anche come una sorta di favola universale, dove la morale è che quando il desiderio si fa più grande del dolore e della fatica anche i miracoli possono accadere.

Come ha raccontato a fine proiezione al pubblico dell’anteprima milanese al cinema Beltrade, è stato un film difficilissimo, non solo perché in Italia è difficile fare film. Ci sono voluti un anno di scrittura e preparazione continua, e cinque settimane per girarlo con accordi presi che saltavano quando si scopriva il tema della pellicola. Il risultato finale è involontariamente molto coraggioso, perché è anche un’opera politica LGBT che a priori non aveva intenzione di esserlo.

Sottotraccia, infatti, emerge la legge Cirinnà passata senza la stepchild adoption, quindi senza la possibilità di adottare il figlio/la figlia biologico/a del/la partner con cui si è uniti civilmente. Emergono però anche la piccola omofobia a cui siamo sottoposti, come nella sequenza dell’uomo che prende di mira Karole e Ali all’interno del bus in quanto coppia di donne innamorate, e la vita di provincia, dove ognuno sa tutto degli altri e chi si comporta in modo diverso è subito avvistato e ripreso, come fa il prete scandalizzato dai modi di fare di Karole bambina, ma che rappresenta le radici da coltivare anche quando la vita ci allontana e ci sposta.

Per sua stessa ammissione “il film non è perfetto perché non mi piace la perfezione; soffro di noia quindi non era lineare”. Molto bella la colonna sonora originale composta da Giulia Ananìa e Marta Venturini, e sono quasi tutte donne che hanno casualmente composto lo staff tranne un produttore e il fonico.

Il finale corale con gli attori che camminano sul ponte di Bari come se partecipassero a una processione laica o a una festa arcobaleno ricorda il dipinto Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, e può suggerire che anche se “proletari LGBT della società” la vittoria, come abbiamo già dimostrato, è dalla nostra parte.