Cos’è la comunità LGBT a fine 2020? È possibile averne una definizione inclusiva di tutte le possibili sfumature oramai presenti o, considerando gli attacchi e i commenti indirizzati ad ArciLesbica dopo una sua recente presa di posizione, è ora che capiamo che “non c’è più rispetto neanche tra di noi”, usando un verso di Zucchero Sugar Fornaciari? Abbiamo intervistato la presidente Cristina Gramolini.

 

Primo antefatto. Il primo dicembre l’agenzia ANSA diffonde la seguente notizia: (ANSA) – NEW YORK, 01 DIC – Ellen Page di “Juno” fa outing come transgender. L’attrice candidata agli Oscar nel 2008 ha 33 anni e sei anni fa aveva annunciato di essere gay. Ha detto che d’ora in poi si farà chiamare Elliot e userà come pronomi “he/they”, lui e loro. (ANSA).

Faccio notare l’uso sbagliato di outing al posto di coming out, perché Ellen Page nel 2014 dichiarò al mondo autonomamente di essere una donna omosessuale. Stilo una nota, invece, perché in italiano è quindi più corretto scrivere “aveva annunciato di essere lesbica” e non trascrivere “gay”. Nel giornalismo americano il termine può essere usato in generale sia per gli uomini sia per le donne, mentre da noi indica soprattutto i soli maschi omosessuali.

A commento di quest’annuncio che, considerata la notorietà della persona, ha fatto subito il giro del pianeta, il pomeriggio del 2 dicembre ArciLesbica Nazionale pubblica sulla propria pagina Facebook, a circa un’ora di distanza, due frasi a caratteri bianchi sopra un campo rosso e con tanti cuori.

La prima è “I nostri presidenti Mario-Cristino salutano solidali gli attori Elliot (perché no?)”, e ottiene 52 emoji di reazione varia dalla rabbia all’amore, 89 commenti e 2 condivisioni. La seconda è “Elliot e le storie a tesi”, che trovo essere un calembour molto raffinato come satira, che riceve 66 emoji, 91 commenti, 7 condivisioni.

“I nostri presidenti ecc.” è più criptico perché, citando La Settimana Enigmistica, forse non tutti sanno che in inglese si sta attuando una dislocazione grammaticale di alcuni pronomi personali da parte di chi si definisce come persona “non binary”. Invece che he/she (lui/lei soggetto) e him/her (lui/lei complemento oggetto) che indicano un genere preciso, per riferirsi a sé usa e chiede che si usino delle alternative “gender neutral”.

Queste vanno da they/them (loro) a neologismi che non mi sembra siano ancora uniformi perché in rete ho trovato: ze/hir o zir/hirs o zirs ma anche xe/xem, ne/nem, ve/ver e altri. La frase “He/She laughed” (lui/lei risero) può diventare “They laughed, Ne laughed, Ve laughed, Ey laughed, Ze laughed…”, e “I called him/her (io lo/la ho chiamato/a) può diventare “I called them/nem/ver/em/hir/zir/xyr…”.

Il 5 dicembre la presidente in carica di ArciLesbica Nazionale Cristina Gramolini pubblica, sempre sulla pagina Facebook dell’associazione, una lettera aperta il cui testo è riportato interamente alla fine dell’intervista che ci ha cortesemente dato. Al momento in cui scrivo le reazioni sono 386 emoji, 549 commenti (di ogni tipo e genere, scusate il gioco di parole) e 133 condivisioni. Numeri non indifferenti.

Come maschio biologico gay e gender solid (non amo il termine cisgender e se esiste la fluidità di genere ci deve essere la solidità di genere), che quindi appartiene alla categoria più rappresentata della comunità arcobaleno (non la più rappresentativa), forse potrei abilmente evitare di inserirmi nella mischia, ma come militante LGBT da più di 20 anni qualche domanda mi sembra doveroso far(se)la.

Prima di passare alla conversazione, penso che è opportuno parlare di un secondo antefatto. Dall’8 al 10 dicembre 2017 si tenne l’ottavo Congresso Nazionale di ArciLesbica, in occasione e a seguito del quale avvenne uno scisma interno. Vari circoli territoriali si staccarono e attiviste fecero nascere ALFI Associazione Lesbica Femminista Italiana.

Per me la pluralità del pensiero e la libertà di parola sono sintomo di buona salute in democrazia, e la visione politica di ArciLesbica è netta, come si legge nel comunicato stampa emesso in seguito all’elezione della nuova presidente e della nuova segreteria nazionale.

(…) “L’associazione si proietta in un orizzonte femminista radicale, opponendosi risolutamente alla maternità surrogata in quanto riduzione a cosa di chi nasce e assoggettamento del corpo femminile sul mercato.

ArciLesbica rivendica piena agibilità per i posizionamenti femministi all’interno del movimento lgbt* e si fa promotrice di una fase di discussione a tutto campo sul nuovo scenario apertosi dopo la conquista della legge sulle Unioni Civili: adozioni per single e coppie dello stesso sesso, rifiuto del modello neoliberale della società, lotta agli stereotipi di genere:

‘Lottiamo contro la lesbofobia, l’omofobia e la transfobia’ si legge nel documento approvato ‘e sottolineiamo che questi non sono concetti coincidenti: in particolare la lesbofobia è ostilità verso le relazioni d’amore tra donne e si aggancia all’odio per le donne indipendenti.’” (…)

Le posizioni di ArciLesbica su temi quali maternità surrogata, difesa della differenza sessuale rispetto all’identità di genere, prostituzione e pornografia possono non essere condivise, possono essere dibattute e contestate, ma sono assolutamente da rispettare e non da censurare o da tentare di cancellare. Sembra un concetto lapalissiano ma la realtà dei fatti lo smentì da subito, e questo ci deve far riflettere profondamente a tutti e a tutte.

Un esempio è l’articolo di Gianluca Pellizzoni che Gay.it pubblicò l’11 dicembre. Il titolo è “Arcilesbica si è messa fuori dal movimento LGBT”, e ha come sottotitolo “Al congresso dell’associazione vince la linea anti-gpa, transfobica e anti-queer: come possono far parte della comunità LGBT?”.

Stefano Bolognini, direttore della rivista mensile Pride, invece, nel numero di gennaio 2018 scrive “Lo strappo di ArciLesbica”, con il sottotitolo “È arrivato il giro di boa per l’associazionismo LGBT italiano. A dare il via all’atteso smottamento il congresso di Arcilesbica, che ha messo in discussione il pensiero unico che attanaglia il movimento gay italiano”.

Cristina, la prima domanda o riflessione che mi viene in mente di farti, e che può apparire blasfema, è “fino a che punto ‘dobbiamo’ essere’ inclusivi?”. Io adesso sono a favore del separatismo tra le lettere L-G-B-T (e aggiungo il segno +) quando è utile o necessario, perché non abbiamo sempre le stesse istanze e questo dobbiamo riconoscerlo. Questo però non significa esclusione o esclusività.

Inclusivi è una parola già logora per quante volte viene ripetuta. Provo a sostituirla. Quanto dobbiamo essere accoglienti noi movimento LGBT+? Penso che la massima accoglienza-inclusività sia il metterci in ascolto l’uno dell’altro e tenere conto dei bisogni, delle speranze, delle paure di ciascuno e da qui procedere nelle scelte culturali individuali e associative, perché accogliere non significa accettare tutto ma tenere conto di ciò che non si condivide.

Per esempio provo, o meglio provavo (prima che il furore delle polemiche mi facesse ritrarre), ad ascoltare il desiderio di chi ha un corpo maschile e si sente donna e lesbica, ma scelgo un altro modo di intendere il lesbismo: per me la sessualità tra chi ha un corpo maschile e chi ne ha uno femminile non è lesbismo, però finché c’è sincerità e rispetto lascio un’apertura alla ricerca su quanto non capisco.

Noi LGBT+ non siamo una famiglia che include tutta la parentela, ma un movimento portatore di culture e priorità, rivendicazioni diverse tra loro, a volte opposte: c’è chi concepisce come un diritto naturale il diventare genitore tramite la messa al lavoro della gravidanza, c’è chi come me considera questa prassi un attentato ai diritti umani fondamentali. Come includerci reciprocamente? Possiamo solo ascoltarci e ci abbiamo provato, ma poi non ci siamo ascoltati più. Ora si è da una parte o dall’altra della barricata.

La mia delusione presuppone una precedente piccola illusione e consiste nella scoperta del maschilismo quotidiano nella comunità LGBT+. Non credevo certo che fossimo una comunità di redenti, ma mi ha sorpresa una così forte coincidenza tra il patriarcato etero e quello queer: stesso ricorso alla violenza per tacitare le donne non allineate, uguale fragile permalosità di fronte alle critiche, medesima credenza nella propria ispirazione magistrale (questo solo per i maschi), insensibilità verso la condizione concreta delle donne.

Prendendo come data di partenza i moti di Stonewall, non si può negare che dopo 50 anni di lotte ci sono state delle evoluzioni, anche nelle definizioni che diamo di noi, e dei progressi oggettivi in molte parti del mondo “occidentale”. Invece che dialogare e capire i limiti e le delimitazioni dei nostri gruppi, ci stiamo prendendo a borsettate piene di mattoni e forse anche sgretolando dall’interno… Dove ci porta tutto questo secondo te e ci sono soluzioni?

L’unico miglioramento che realisticamente ritengo possibile è che si possa reimparare ad ascoltarsi e a ricordarsi gli uni degli altri quando parliamo, in modo da riuscire a fare le nostre azioni senza calpestare e annientare ciò che non accettiamo; il senso di questo è semplicemente perché esiste, anche se noi non lo vogliamo. Qualcosa però è cambiato, perché nelle attuali polemiche non ci sono borsettate né sventagliate di gaia memoria, ma bullismo, intimidazioni e odio. La parola giusta è odio. Un tempo la discriminazione ci univa per la protezione reciproca, ma ora il diritto a unirci civilmente, a cambiare genere, a esprimerci apertamente, ci hanno dato il senso della superfluità dell’altra persona se dissidente. Quindi non so se e quando sarà possibile riaprire la discussione tra segmenti del movimento LGBT+ che si disconoscono.

Sulla piattaforma online gratuita di campagne sociali Change.org ho trovato due petizioni contro ArciLesbica. La prima promossa (sembra) circa sei mesi fa da Davide Moi dal titolo “ArciLesbica, non abbiamo bisogno di altre discriminazioni per combatterle.” (62 firme ottenute su 100 richieste). La seconda è più recente (circa una settimana fa rispetto a quando scrivo), “Arcilesbica NON rappresenta la mia ‘L’” a firma di Rosy DC che presumibilmente è Rosy Di Carlo, di cui ho fatto scrivere la recensione del suo primo libro perché mi piacque molto. Cosa dici, rappresentate “il pensiero di TUTTE le lesbiche italiane”?

In gennaio uscirà un libro-manifesto scritto a più mani da alcune di noi di ArciLesbica e intitolato Noi, le lesbiche. Preferenza femminile e critica del transfemminismo. Il termine lesbica non ha avuto mai una fortuna di massa: negli anni novanta la lesbica media si definiva gay o omosessuale, oggi queer o genderfluid ecc., insomma tutto pur di non usare un termine solo femminile. Non diversamente si comportano i commentatori di oggi come degli anni novanta, che parlano di donne gay, omosex, lesbo, insomma la parola lesbica per molti è difficile e non per motivi eufonici come credono. La parola lesbica era invece usata già dagli anni ottanta dalle lesbiche separatiste o lesbofemministe e ancora oggi la parola reca con sé l’oltrepassamento della idealizzazione maschile. Noi di ArciLesbica rappresentiamo il lesbismo di oggi nel senso che siamo le testimoni ora e in questo paese di un modo di essere imperniato sull’esperienza e la preferenza femminile, che non teme il giudizio del padre né quello del fratello, siamo la versione odierna della donna emancipata o della donna che ha indipendenza simbolica, usando l’espressione più efficace di Luisa Muraro.

Rosy Di Carlo si occupa di dive e lesbiche, avanzo sommessamente il dubbio che a lei interessi più il primo dei due addendi, dive, mentre noi siamo in un altro mondo. Ci si frequenta se ci si interessa, non c’è niente di male a non essere interessate a qualcosa, la furia persecutoria però ci ha stancato, sia quella dei ragazzetti sprezzanti che si beano di scientismo e imbrattano le nostre pagine, sia quella delle ragazze al loro seguito, benché queste ci facciano più empatia perché sappiamo che la loro volgarità sarà un boomerang e che cercano di colpire in noi ciò che più temono per sé, cioè di essere donne disprezzate.

< Lettera aperta alle nostre odiatrici e alle nostre estimatrici.

Un’amica ci ha scritto una vibrata richiesta di spiegazioni circa i nostri post su E. Page. Lei ha ricevuto una risposta personale ma ci ha ispirato anche questa Lettera aperta.

Siamo immerse nel trans-cult: bambini che non rispettano gli stereotipi vengono detti trans e gli si offre il blocco della pubertà, che ovviamente accettano, quale bambina o bambino non accetterebbe che una fantasia diventi realtà? Aumentano le bambine che vogliono diventare maschi, anche questo è comprensibile, giochi avventurosi ecc. Peccato che un/a bambino/a non sappia valutare le conseguenze delle sue azioni; peccato che un minore “trans” è normalizzato rispetto a una maschiaccia o a un bambino gentile; peccato che sempre più detransizionano con danni irreversibili al loro corpo.

Nudm propugna il transfemminismo (il termine femminismo sarebbe riduttivo) e promuove il sex work come professione, peccato che non abbiamo alcun bisogno di normalizzare gli abusi sessuali in cambio di denaro, che sono già il fondamento della società a dominio maschile. Le transfemministe usano la u come desinenza, avevamo appena acquisito di nominare le donne ma è già ora di sparire per più nobili inclusioni.

Le poche quote di pari opportunità femminili sono date anche a mtf, è successo ad esempio nei partiti progressisti inglese e americano; gli sport femminili sono aperti alle mtf, che vincono le competizioni, guarda un po’, e Martina Navratilova dice che non va bene perciò viene scomunicata. In Italia il MIT (Movimento Identità Trans, N.d.R.) ha recentemente lanciato un appello intitolato ‘Fuori le terf dalle Università’, una fatwa contro una docente emerita tra le iniziatrici degli studi delle donne e contro le docenti dalle idee femministe sgradite.

Le persone transgender vogliono il cambio anagrafico di sesso senza operarsi e anche senza ormoni né diagnosi, come E. Page a quanto pare. Figuriamoci se gli uomini considerano come uno di loro una donna che si dichiara uomo. E le donne? Ma dicono di sì perché bisogna essere inclusivi a costo di essere ipocriti, presumere la sofferenza e fingere di non vedere quello che vediamo!

Le lesbiche sono donne non sottomesse, non abbiamo paura di dire quello che pensiamo: nella nostra associazione non siamo devote del trans-cult, per noi non esistono i bambini trans, la prostituzione non è un lavoro, gli sport femminili sono per le donne, la transessualità è una esperienza seria e non facile come una autodichiarazione, le persone trans devono avere politiche di pari opportunità dedicate.

Per amore delle donne, delle altre e di noi stesse, non vogliamo più storie di sfruttate-felici e denunciamo l’orrida pratica dell’utero in affitto, perché sappiamo che l’autodeterminazione a farsi sfruttare è l’alibi degli sfruttatori.

Avremmo più vantaggi se facessimo le serve sciocche dell’attuale piattaforma del movimento lgbt+, abbiamo rinunciato a stare comode perché la nostra coscienza non ci ha permesso di restare complici di quanto sta accadendo, cioè la perdita dell’intelligenza critica e dell’ironia, la fine della radicalità liberatrice e dell’ecologia del corpo.

Le donne vanno contro se stesse se lasciano che si vendano le madri, i bambini, il loro stesso nome di donna (esistono donne con il pene, bisogna dire se si vuole evitare l’accusa di terf e restare à la page – o à la E. Page-). La libertà di noi donne non è dove la indicano gli uomini, siano essi etero, gay o trans.

Noi parliamo e scriviamo nei nostri spazi, mentre l’allegra e inclusiva comunità lgbt+ vorrebbe impedircelo mandandoci via da qui o da lì, sono così stupidi da non capire che via da qui e da lì continueremo a parlare e scrivere dicendo che una certa loro politica per noi è falsa e dannosa.

Siamo convinte della necessità del pluralismo e auspichiamo che si possa tornare a discutere, non abbiamo nulla a che fare con chi trasforma il movimento lgbt+ in un campo ottuso e intimidatorio, con un’unica posizione consentita a suon di manganellate favolose.

Cristina Gramolini >