Niente sesso, siamo inglesi è il titolo di una commedia degli anni ’70, che presentava al mondo il modo in cui i britannici vorrebbero essere identificati: un popolo pudibondo. Cosa comporta nell’universo LGBT, invece, rinunciare al piacere fisico e soprattutto volere obbligare altre persone LGBT a farlo?

 

Come militante della lotta di liberazione sessuale non finisco mai di stupirmi di quanto, nei discorsi queer e transqueer, l’importanza della vita sessuale venga sminuita: dalla semplice sottovalutazione fino alla vera e propria sessuofobia.

Durante le interminabili chiacchierate (prima dei social media, fra esseri umani ci si parlava) con le persone trans MtF che ho conosciuto nella vita, una delle questioni più delicate che abbia mai affrontato era come avessero potuto rinunciare alla sessualità genitale. Com’è possibile mantenere la sensibilità nervosa, come molte trans MtF affermavano di avere fatto, quando per forza di cose i nervi vengono tagliati durante l’intervento chirurgico? La mia cicatrice dell’operazione di appendicite fatta da ragazzo non ha mai più ripreso la sensibilità.

E come avevano potuto rinunciare al piacere sessuale a cui, visto che ero giovane, io non avrei rinunciato per nessuna ragione?

 

Una mia interlocutrice mi diede infine risposte che mi permisero di capire il punto di vista delle donne trans di allora: “Non credere a quelle che raccontano di favolosi orgasmi multipli nella neo-vagina. Quella è solo propaganda, fatta anche per tagliare corto con curiosità che molto spesso sono solo morbose.

La verità è che di quel piacere, quello genitale, io non me ne facevo nulla. Il mio pene era un fastidio, mi stava di mezzo, mi creava angoscia e vergogna, e mi rovinava il rapporto sessuale. Ero sempre angosciata del fatto che il mio partner lo vedesse, o lo toccasse.

La sofferenza che mi causava era superiore al piacere che teoricamente avrebbe dovuto darmi, e che non mi dava. Ho quindi valutato i pro e i contro, e alla fine ho preferito privarmi di una cosa che mi dava soprattutto sofferenza.

Dopo tutto, il rapporto sessuale non è solo genitalità, e tutto il resto mi è rimasto, e ora posso finalmente godermelo. Ora posso godermi anche il banalissimo fatto di fare coccole con un uomo, mentre prima non potevo“.

Per quanto io continui a non approvare qualsiasi medicalizzazione non necessaria dei corpi (dopo tutto la mia generazione leggeva Nemesi medica di Ivan Illich), e quindi la scelta delle persone trans non-med mi paia del tutto sensata, riesco a comprendere la decisione d’una persona adulta e raziocinante che, dopo aver provato la sessualità, ha soppesato i pro e i contro e ha deciso di rinunciarvi, per ottenere un bene (per lei) maggiore. Credo quindi che poter fare tale scelta sia un diritto fondamentale d’ogni individuo, come lo è la scelta di un monaco cattolico di rinunciare alla sessualità.

Ciò non toglie che mi sia sempre chiesto quanto la sessuofobia abbia aiutato in Italia a ottenere la legge per la riassegnazione del sesso anagrafico (legge 164 del 14 aprile 1982), a favore della quale, lo ricordo per chi ancora non era nato, votò perfino la Democrazia Cristiana!

 

Una scelta che sembrerebbe incomprensibile, se non ricordassimo che nella tradizione cristiana esiste l’idea secondo cui farsi “eunuchi per il regno dei cieli” è cosa virtuosa (a patto di non esagerare come Origene, che prendendo troppo alla lettera il Vangelo si tagliò i genitali), in altre parole che l’idea di rinuncia totale alla sessualità non sia di per sé un male.

La nostra società era quindi già psicologicamente pronta all’idea per cui rinunciare alla genitalità è un atto che in un piccolo numero di persone (preti, suore, monaci… e trans) può anche essere socialmente tollerato.

Forse, mi chiedo, se la transizione avesse comportato il taglio di qualsiasi altro membro, la legge 164 non sarebbe stata mai approvata, ma trattandosi di caratteristiche sessuali, considerate non essenziali (anzi, in certi ambienti bigotti, addirittura brutte e oscene), ha ottenuto il “via libera”.

Avanzamento veloce all’oggi, ed eccoci a una delle questioni più scottanti del “dibattito” con il transchilismo: la transizione dei bambini. La mia posizione è già nota e chiara: sui minorenni non va effettuato nessun intervento medico irreversibile e non necessario per la sopravvivenza. Sia che si tratti di bambini con DSD (different sex developments, sviluppi sessuali differenti, N.d.R.), i cosiddetti “intersessuali”, sia che si tratti di bambini non conformisti del genere, i cosiddetti “transgender“. Viceversa non ho obiezioni contro tutto ciò che è reversibile, come vestiario o nomi.

Ora, in alcuni degli scarsissimi studi fatti (all’estero) sugli effetti degli ormoni bloccanti la pubertà, sarebbe emerso che fino all’80% (la percentuale varia a seconda degli studi) dei minori non conformisti al genere, una volta raggiunta l’età adulta, non prosegue il processo di transizione (e risulta essere per la quasi totalità composto da omosessuali, un dato che un movimento LGBT non dovrebbe trascurare), mentre fra i bambini non conformisti di genere sottoposti ai bloccanti la percentuale di transizione è quasi del 100%.

 

Quale può essere la causa di tale differenza? Una spiegazione che è stata data è che solo i casi più severi e quindi evidenti di disforia, già “destinati” in partenza a sfociare nella transizione, sono proposti per gli ormoni bloccanti, e questa potrebbe anche essere la spiegazione valida.

Tuttavia un’altra spiegazione altrettanto valida suggerisce che, con l’arrivo della pubertà, gli adolescenti scoprono improvvisamente il sesso. E fanno come l’interlocutrice di cui parlavo poco sopra: soppesano cosa valga di più nella loro vita, e scelgono. Uno su cinque fa la scelta della mia amica. Quattro su cinque giudicano invece più importante il piacere genitale.

Non ho la risposta valida per dire quale delle due tesi sia giusta, però mi preoccupa un dato: l’idea che il piacere sessuale potrà essere importante per questi bambini, una volta adulti, non è mai un argomento delle discussioni fra i sostenitori delle due spiegazioni.

Eppure la genitalità non è affatto poco importante, come dimostra in modo inequivocabile il fatto che la gran maggioranza di attiviste/i trans che premono per intervenire chirurgicamente sui bambini, non si è mai sottoposta a tali interventi (mentre, sull’altra sponda, molte/i trans che vi si sono sottoposti, e quindi sanno cosa implichino, sono contrari agli interventi irreversibili sui minori).

La celebre Jazz Jennings, la cui crescita come ragazzina trans è stata oggetto per anni di un reality show televisivo, raggiunta la maggiore età ha in pompa magna subìto l’intervento chirurgico tanto atteso. Risultati: finalmente i primi appuntamenti sessuali (a 18 anni! Ma proviene da una famiglia molto cristiana… il che peraltro spiega certe cose!), seguiti dalla constatazione di “non aver provato niente”, dalla realizzazione del fatto che probabilmente “non riuscirà mai a provare un orgasmo“, per sfociare infine in una “crisi personale” con depressione, che l’ha costretta a sospendere gli studi universitari e a prendersi “una pausa di riflessione”.

Jazz Jennings

 

Forse Jazz Jennings ha scoperto troppo tardi di aver compiuto un errore (forse era solo un ragazzino gay effeminato, e non una ragazzina trans eterosessuale?), e che forse il sesso avrebbe dovuto sperimentarlo prima, non dopo, averci rinunciato per sempre?

Ecco, a questo aspetto non vedo dare mai cittadinanza piena nel dibattito. È come se fosse un piccolo segreto sporco, da nascondere sotto il tappeto, laddove sarebbe invece da discutere apertamente, per assicurarsi che chi fa certe le scelte le faccia a ragion veduta.

Rilevo un’evidente sessuofobia in quest’atteggiamento, che svilisce l’importanza della vita sessuale, trascurata come se non fosse degna di menzione.

Così come dico che c’è sessuofobia nei surreali proclami via social media sul fatto che se una persona “cis” non prova attrazione sessuale per il corpo d’una persona trans in via di transizione, si tratta di transfobia, e la persona cis dovrebbe “educarsi” e imparare ad apprezzarlo.

Quanto questo ragionamento sia demenziale lo si capisce sostituendo la parola “vecchio” alla parola “trans”, per scoprire quanto nessun queer o transattivista abbia mai avuto la minima intenzione di “educarsi” lu‎i: ciò che lu‎i vuole è solo costringere le altre persone a fare sesso con lu‎i anche se lu‎i non piace loro, e non certo educare chicchessia.

Ma anche concedendo che questo ragionamento queer sia fondato (e non lo è), proviamo a immaginarne le conseguenza. Tizio o Tizia vengono convinti da questa argomentazione ad avere un rapporto sessuale a cui non sono interessati con una persona il cui corpo non le/li eccita.

La domanda che mi sorge spontanea è: ma che cosa rappresenta un rapporto sessuale per sostenitori e sostenitrici di questo semi-stupro? Davvero la loro aspirazione è far sesso con persone che non si sentono attratte da loro e quindi non vedono l’ora che l’esperienza sia terminata? Ma che razza di concezione del sesso hanno?

Davvero non sarebbe meglio proporsi semmai a quelle persone (chiamiamole qui per brevità “pansessuali“) che sono attratte anche dal corpo trans in transizione?

Ma, mi è stato obiettato, il loro numero è esiguo, e i/le pansessuali non bastano per tutti‎/e.

 

Ora, a parte che a questo punto le persone trans potrebbero benissimo fare quel che chiedono alle persone lesbiche e gay di fare, ossia “educarsi” e cercarsi d’amarsi a vicenda (anzi, non si vede perché la loro regola non debba valere in primis per loro stesse), questa obiezione certifica oltre ogni dubbio il fatto che la persona trans può sperimentare difficoltà nel trovare partner sessuali compatibili.

Ma se ciò è vero, sarebbe allora giusto avvisare in anticipo del fatto che, una volta iniziata la transizione fisica (ormoni, mastectomia eccetera), il numero dei potenziali partner sessuali di una persona trans crolla (analisi molto ragionevole per gli FtM gay, N.d.R.). Dopodiché, ovviamente, ognuna valuterà se ne valga la pena o no, ma almeno lo farà avendo coscienza di cosa implichi la propria scelta.

Mentre scrivevo della pretesa dei queer di sottoporre la razza umana (o almeno, la parte della razza umana che vorrebbero scoparsi) a un folle esperimento di “terapia riparativa”, mi veniva in mente un dato curioso e poco noto. Sono abbastanza vecchio da avere assistito a un analogo esperimento sociale di “terapia riparativa” su base ideologica, di cui pochi parlano, perché “le vittorie hanno cento padri, mentre le sconfitte sono orfane“.

Negli anni Settanta, la parte più intransigente del movimento femminista separatista (le antenate delle radical feminists odierne) aveva teorizzato (sulle orme di Andrea Dworkin o Valerie Solanas) che qualsiasi atto di penetrazione eterosessuale costituiva intrinsecamente uno stupro, che la relazione sessuale con un maschio era un atto di violazione, pertanto era necessario riscoprire la “sorellanza” anche sessuale fra donne, le uniche persone in grado di capire un’altra donna e darle l’amore e il rispettoso godimento sessuale che meritava.

Questa ideologia ispirò perfino opere di fantascienza (come The Female man di Joanna Russ), nelle quali s’immaginava un futuro in cui le donne si erano sbarazzate dei maschi e si amavano fra loro, riproducendosi attraverso la fusione degli ovuli. Il problema dell’orientamento sessuale, in questi romanzi, non veniva però mai considerato. Le donne decidevano di amare altre donne, e “quindi” lo facevano. Semplice, no?

 

No. Come andò a finire? Beh, non ci volle molto prima che le femministe scoprissero che il maschio della razza umana sarà un bruto (come noi froci sappiamo fin troppo bene sulla nostra stessa pelle), ma che, salvo il caso delle donne lesbiche, il loro corpo e la loro mente desiderava istintivamente i “bruti” e non le sorelle.

Morale: chi si mette contro l’istinto sessuale per motivi ideologici, lo fa a proprio rischio e pericolo.

Esiste infine ancora un altro elemento alla base della sessuofobia presente nella moda transqueer che ci viene dagli USA.

Questo elemento è la profonda radice puritanica (in senso religioso, non morale) e cristiano-evangelica degli USA, patria del pensiero queer.

Lo sdegno morale, il proibizionismo, il pattugliamento dei comportamenti esteriori altrui, la sessuofobia (appunto), la convinzione della salvezza attraverso una ferma Fede, la caccia alle streghe in puro stile Salem, l’intromissione nelle camere da letto anche di adulti consenzienti in privato…, sono tutti aspetti che vediamo nella battaglia in corso negli USA tra postmodernismo e femminismo radicale.

E noi? Noi italiani abbiamo conquistato il diritto alla nostra sessualità combattendo contro una Chiesa cattolica che non ha mai negato la realtà del sesso, però, solo a patto che fosse sottoposto alle proprie demenziali regole.

A parte una frazione di noi (la “sinistra Imperiale“, gli àscari dell’Impero americano) che cerca di scimmiottare ciò che detta l’Impero, nella speranza d’essere ricompensata con la cooptazione nell’élite globalizzata, scopro che la maggioranza delle lesbiche e dei gay non riesce neppure a credere che le idee che ho appena contestato non me le sia inventate io di sana pianta.

Forse allora non tutto è perduto… a parte il movimento lgbtqiaa+++, ovvio. Ma, tanto, di quello non è rimasto molto, a parte i comitati d’affari e i comitati elettorali.