Un docufilm su un giovane artista performativo queer mostra quanto può essere spaventosa, violenta e repressiva la cultura russa verso gay e persone gender non conforming, facendo anche riflettere sui confini invisibili degli spazi temporale e geografico. Ne abbiamo parlato a Milano con Agniia Galdanova, regista di “Queendom”.

  

Provate a immaginare di nascere a Magadan, una città portuale dell’estremo nord-est della Russia affacciata sul mare di Ochotsk, a più di 10.000 km di distanza da Mosca (anche in linea d’aria la capitale dell’Alaska è più vicina), di scoprirvi omosessuali e di avere un bisogno incontrastabile di esprimere chi siete e il vostro dissenso attraverso l’arte. Fidatevi, è impossibile riuscirci.

Premio del pubblico al 37° MiX festival internazionale di cinema LGBTQ+ e cultura queer di Milano, Queendom racconta la vita di Gena Marvin, ragazzo ventenne originario di un paese che sorse nel 1930 come gulag, un durissimo campo di prigionia e lavoro forzato nell’Unione Sovietica dominata dalla dittatura di Stalin. Qui si esibisce per le strade truccandosi in modo vistoso e indossando costumi surreali messi insieme con nastro adesivo e materiali di scarto o riciclo, sfidando qualsiasi forma di convenzione.

Diffonde su Instagram le sue performance che esortano a rivendicare libertà per gli orientamenti sessuali, identità ed espressioni di genere, diritto di parola e bisogno di superare un atroce passato che in quei luoghi sperduti le nuove generazioni si portano ancora sulle spalle, perché come dice la nonna: “La memoria di quei tempi è rimasta nel DNA della città”. A questo link potete vedere una clip con alcune sue esibizioni.

Gena ha bisogno di non appartenere a Magadan e di riuscire a rompere quelle catene immaginarie, ma in questa nazione la sua visione del mondo è incompatibile ovunque, anche a Mosca dove si trasferisce per studiare moda e dove parteciperà a manifestazioni di protesta politica contro il governo di Putin, persino sfilando in strada con il corpo dipinto come la bandiera russa, che gli costeranno l’espulsione dalla scuola che frequenta. Gena esiste andando in giro in pubblico in pieno giorno, e la sua forma d’arte queer aumenta a dismisura il livello di pericolo per la sua esistenza.

I suoi costumi non sono vestiti di scena da drag queen luccicanti di paillettes, che esaltano una figura femminile idealizzata oltre misura, che trasmettono glamour e leggerezza. C’è stravaganza e non eleganza nei suoi abiti scultura che la fanno sembrare un esile extraterrestre che cammina a fatica su scarpe con tacco e piattaforma altissimi. A volte, invece, come mentre striscia dentro a un vagone della metropolitana, sembra un insetto immaginario dalle intenzioni poco rassicuranti con finti artigli di lunghezza fuori misura e gli occhi completamente neri per le lenti a contatto.

L’attivismo di Gena fa riflettere su cosa sia il coraggio autentico e quali forme di pensiero nuovo si possano incarnare nella militanza LGBT, però da noi in Occidente la sua visione è un déjà-vu, perché un personaggio queer larger than life come Leigh Bowery faceva cose simili negli anni ’80 del secolo scorso a Londra, quando però non esistevano i social media.

In Russia le sue performance erano considerate provocatorie e creavano reazioni immediate. A Parigi dove adesso risiede dopo aver chiesto e ottenuto asilo politico, la gente non si volta più per strada al suo passaggio perché va in giro truccato e su tacchi a spillo. Qual è quindi il limite dell’arte o del luogo o del tempo in cui è creata?

Dalle visioni delle strade grigie e delle affascinanti lande ghiacciate della Russia sperduta fino agli attacchi omofobici subiti come quando è letteralmente allontanato con forza da un supermercato mentre fa la spesa e non solo, passando per i dialoghi che intercorrono con il nonno conservatore che vorrebbe che il nipote conducesse una vita normale, soprattutto perché non gli accada nulla di male, il valore di Queendom sicuramente risiede nel presentare molti spaccati di vita reale. Creano deficienze la lentezza e la lunghezza della visione, e non è originale il messaggio che qualsiasi forma di ribellione comporta un prezzo da pagare e che l’arte può avere un potente, dirompente e sovversivo valore politico.

Agniia, quale fu la genesi di questo tuo lavoro e come hai conosciuto Gena?

Nel 2019 avevo deciso di fare ricerche per una serie di documentari su drag queen provenienti da luoghi della Russia dove l’atmosfera è meno aperta che nelle grandi città come Mosca o San Pietroburgo. Le cose sono cambiate molto velocemente quando con il co-produttore Igor Myakotin abbiamo incontrato Gena. Ho capito che non avevo bisogno di nessun altro e che volevo focalizzarmi sulla sua storia. Incredibilmente anche Igor è originario di Magadan ma non conosceva Gena, e l’ho considerato un segno del destino. Adesso abbiamo costruito dei legami cosi forti che siamo come una famiglia.

Igor Myakotin e Agniia Galdanova

È stato pericoloso girare questo documentario e pensi che questo tuo lavoro avrà un impatto sulla comunità arcobaleno in Russia?

Da un momento all’altro mentre filmavamo le cose potevano cambiare in pochi secondi in maniere inaspettate. Fummo molto fortunati perché fummo arrestati solo durante l’ultima performance che Gena fece contro la guerra in Ucraina. Restammo in carcere solo una notte e non ci fu violenza fisica nei nostri confronti, come adesso invece spesso capita. Dopo ci fu il processo e Gena che aveva già dei precedenti si sentì in pericolo, quindi decidemmo che doveva chiedere asilo politico, anche perché l’avrebbero arruolato nell’esercito e di sicuro non sarebbe sopravvissuto (tutto questo lo si vede nel film, N.d.A).

Per me la bellezza di un documentario è che non c’è sceneggiatura, aspetti che ti arrivi un regalo dalla realtà, e con Gena era sempre così. Era senza paura e a volte imprevedibile, e a volte bisognava essere pronti a saltare sul suo carro e seguire dove decideva di andare. Quindi ero sempre in contatto con avvocati o persone che mi potessero dare indicazioni su come comportarci se fossimo stati trattenuti dalla polizia, o sapere dov’erano gli ospedali se ci avessero picchiato per strada. Il nostro operatore di ripresa indossava i pattini a rotelle per non essere catturato.

Fa paura uscire in Russia soprattutto con quel livello di coraggio che Gena ci metteva indossando outfit provocatori in posti dove anche per me che ero vestita normalmente poteva essere un problema.  Non sai mai da dove possa arrivare la violenza: da un poliziotto, da un uomo aggressivo…  La situazione adesso è diventata molto peggiore e tutto quello che abbiamo girato è proibito da mostrare in Russia a causa delle leggi contro la propaganda LGBT, e se lo avessimo fatto adesso non ce la saremmo cavata così “facilmente”. Gena è un esempio per le nuove generazioni di non nascondersi e far sentire la propria voce apertamente.