Presentato al 37° MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer di Milano il secondo film del regista iraniano in esilio Milad Alami ha come protagonista un uomo lacerato tra i valori familiari e la sua latente omosessualità, e si focalizza sulla drammatica condizione dei rifugiati in Svezia. Lo abbiamo intervistato.

 

Ancora una volta la cronaca ci sta mostrando quanto è crudele la repressione del regime iraniano: è passato un anno dalla morte di Mahsa Amini, colpevole solo di non portare il velo correttamente, che un’altra giovane donna giace in fin di vita per la stessa ragione, entrambe vittime degli sgherri della cosiddetta polizia morale.

È altresì noto quanto precaria e a rischio di morte è anche la vita degli omosessuali in Iran, quindi per molti di loro lasciare il paese diventa una necessità per sopravvivere. Ce lo mostra Opponent, avversario, l’intenso film del regista Milad Alami premiato con una menzione speciale della giuria lungometraggi al 37° MiX Festival di Milano (che ha inaugurato la nuova co-direzione di Priscilla Robledo, Paolo Armelli e Pierpaolo Astolfi), candidato dalla Svezia al premio Oscar per il miglior film straniero, e che sarà prossimamente distribuito in Italia da Lucky Red.

Iman (uno straordinario Peyman Moaadi, già co-protagonista di Una separazione di Asghar Farhadi) è un lottatore professionista di wrestling, sposato con Maryam e padre di due figlie adolescenti. Ha intrattenuto una relazione clandestina con un collega di squadra e la voce ha iniziato a circolare. Forse è proprio l’amico ad averlo denunciato pensando di mettersi al sicuro e all’inizio della storia, poco prima di rischiare di essere arrestato, Iman lo riempie di pugni. Subito dopo scopriamo che con la famiglia è riuscito a fuggire trovando rifugio politico in Svezia.

Qui inizia il calvario loro e di tante altre persone come loro in attesa del verdetto sulla loro sorte. Spostati in continuazione da un centro rifugiati all’altro, in attesa di sapere se la domanda di asilo sarà accettata o respinta, fortissima è la pressione psicologica a cui sono sottoposti quotidianamente. Dagli spazi angusti in cui sono costretti a convivere alla barriera della lingua, la diffidenza dei locali nei loro confronti, il clima gelido (si trovano al confine tra la Svezia e la Finlandia), e soprattutto il non sapere cosa potrà accadere il giorno dopo. Dopo aver ricevuto un esito negativo c’è chi fugge nella notte, chi è trascinato via a forza dalla polizia, chi si dà fuoco per la disperazione.

Dopo due anni di snervante attesa e con la moglie che è rimasta incinta, Iman cerca di reagire. Nella speranza che entrando a far parte della squadra olimpica svedese di wrestling la sua pratica possa ricevere una spinta positiva, comincia a frequentare una palestra di lotta. Qui conosce il giovane Thomas che da subito mostra uno spiccato interesse per lui. I due stringono amicizia e il ragazzo lo presenta agli amici, alcuni dei quali sono gay e vivono la loro sessualità alla luce del sole, cosa che turba non poco Iman.

Si capisce che Thomas lo desidera però non ci viene mostrato mai nulla di specifico, è tutto sempre solo alluso e rimane il dubbio se i due a un certo punto facciano sesso. Di certo il rapporto tra loro si rafforza giorno dopo giorno sino a quando, fulmine a ciel sereno, in Svezia arriva per un allenamento congiunto la squadra iraniana, tra i cui componenti c’è il suo ex amante che si vendica picchiandolo selvaggiamente.

Le voci sulla sua “diversità” si sono propagate e i connazionali lo emarginano palesemente evitando di combattere contro di lui. Tutto questo provoca in lui un’ennesima crisi rispetto all’accettazione del proprio orientamento sessuale e dei suoi desideri, arrivando ad aggredire Thomas in quanto gli fa da specchio, e iniziando a seminare dubbi nella moglie.

Comprendendo che il suo talento di lottatore può non bastare a fargli ottenere il permesso di soggiorno, Iman gioca la sua ultima carta. A un ennesimo colloquio con la commissione esaminatrice delle richieste dichiara di essere fuggito dall’Iran perché in realtà è gay, e non perché era stato insinuato da altri che lui avrebbe criticato apertamente il regime. Per la moglie questo coming out pubblico (forse non inaspettato) è la goccia che fa traboccare il vaso, e a questo punto decide di tornare in patria con le figlie. L’abbandono della famiglia provoca in lui uno choc tale da farlo riavvicinare a Thomas, ma come termina il film non lo riveliamo.

Peyman Moaadi

Milad Alami, 41 anni, vive in Svezia dall’età di 6, quando i genitori al ritorno dall’esilio dell’ayatollah Khomeini nel 1979 lasciarono l’Iran, paventando la sorte che sarebbe toccata al loro paese con il regime della repubblica islamica. Opponent è il suo secondo lungometraggio dopo The Charmer. Lo incontriamo per approfondire le tematiche del suo film.  

Rispetto a quella di oggi, era diversa la situazione dei rifugiati in Svezia quando Lei ci è arrivato da bambino?

A metà degli anni Ottanta era tutto molto più facile per chi arrivava dall’Iran. Oggi devi aspettare magari anni nei centri per i rifugiati prima di avere una risposta circa il tuo futuro e sei costretto a fare una vita che rasenta la tortura. La cosa più grave ora è che i politici e alcuni media diffondono una falsa immagine dei rifugiati, presentandoli come possibili terroristi che vorrebbero impadronirsi del paese o distruggerlo, creando una sorta d’isteria nell’opinione pubblica. Non sono più considerati esseri umani bensì un problema sgradevole e lo stesso accade in Norvegia o Danimarca. Trovo questo trattamento davvero malvagio e con il mio film intendevo mostrare una possibile diversa modalità, più empatica e umana.  

Sappiamo che a ben pochi rifugiati è concesso lo status e il diritto di asilo. Questa minoranza riesce poi a integrarsi in maniera soddisfacente nella società svedese?

Quelli che riescono come me a ottenere la cittadinanza si integrano molto bene e conosco personalmente alcuni connazionali che vogliono diventare parte attiva della società. Hanno cominciato una nuova vita e trovato un buon lavoro. Va detto però che in certe aree isolate della Svezia o nei sobborghi delle grandi città ad alto tasso di criminalità tutto è molto più difficile e i politici locali si comportano come se queste persone non esistessero. Ho conosciuto per esempio due giovani rifugiati afgani, intelligenti, colti e volonterosi, che erano stati collocati in una di queste zone ed erano disperati. Niente lavoro, non una biblioteca, solo desolazione. Per gestire bene l’accoglienza è fondamentale offrire ai rifugiati la giusta collocazione sin dal loro arrivo. Bisogna tener conto che si sono lasciati alle spalle tutto, famiglia, amici, stili di vita.

Possiamo dire che Opponent è anche una critica nei confronti dell’Europa che sembra relegare ai margini della società tutti coloro che non sono nati nel continente?

In realtà non volevo fare un film super-politico, ma il fatto di aver messo al centro della storia un centro per rifugiati, il fatto di mostrarli non come un problema bensì come esseri umani, è già di per sé una scelta politica. È una critica nel fatto di rivendicare un approccio più umano nei loro confronti e vale non solo per i politici quanto soprattutto nei confronti della società, troppo propensa a prestar fede alla propaganda e alle falsità dei media. C’è per esempio un canale TV in mano all’estrema destra che diffonde un cliché e uno stereotipo negativo sui rifugiati, tipo che siano tutti stupratori o criminali.

Qual è stata allora la spinta che ha fatto decidere di girare il film?

Oltre a biasimare la società svedese, volevo far comprendere che se nasci e vivi in un paese come l’Iran dove non c’è alcun tipo di libertà e non puoi essere quello che sei veramente, se poi arrivi in Svezia dove all’apparenza ci sono tutte le libertà, compresa quella sessuale, vivi una lacerante dicotomia. Mi sono focalizzato proprio su questa, perché è qualcosa che ben conoscevo essendo io stesso un rifugiato e, prima di dedicarmi al cinema, ho anche lavorato in un centro per rifugiati. Ho deciso di mostrare quella realtà e chiedere se sia possibile essere davvero liberi quando non lo si è stati per la maggior parte della propria vita.

Il protagonista Iman non sa decidere se tornare o meno in patria. La ragione è che non accetta la sua componente omosessuale o perché pensa di non riuscire a ottenere lo status di rifugiato?

Penso che Iman sappia che, nel caso tornasse in Iran, dovrebbe scegliere tra la sua identità di eterosessuale, marito e padre di famiglia oppure mentire e portare avanti come prima una doppia vita da bisessuale che intrattiene relazioni con altri uomini. Inoltre è consapevole che nel suo paese non potrà mai essere libero. Questa è per me la sua tragedia. La sua permanenza in Svezia è come un’esperienza di libertà rubata, compresa la storia con il giovane svedese che gli fa comprendere cosa significa essere liberi sessualmente, mentre in Iran la sua storia omosessuale era totalmente clandestina ed è stata la causa della sua fuga al fine di evitare l’arresto.

Perché ha optato per alludere alle scene di sesso tra lui e Thomas che lo desidera, come nella scena di quando sono entrambi sotto la doccia in palestra da soli, anziché mostrarle apertamente?

Francamente preferisco sia lo spettatore a decidere di quale tipo sia la loro relazione e se tra loro ci sia stato sesso o no. In una prima stesura il rapporto tra loro era molto più chiaro e c’erano scene di sesso esplicito, poi alla fine ho preferito privilegiare l’ambiguità.  

C’è nel suo film qualche spunto autobiografico?

Sì, ci sono molte cose che riguardano il mondo dei rifugiati che ricordavo e che ho messo nel film, come la paura costante di quello che potrebbe succedere. Comunque, anche se non strettamente autobiografico, sono cresciuto in quell’ambiente e ho conosciuto persone come Iman la cui vita in Svezia non era completamente libera, non potevano amare chi avrebbero voluto ed erano frenati da una sorta di autocensura che derivava dallo stile di vita in Iran.

È nota la persecuzione che le persone LGBT soffrono in Iran. Lei cosa pensa a tal proposito?

Che è una cosa orribile. Il regime sta trattando tre generazioni come fossero prigionieri, le autorità sono semplicemente dei criminali. Un’altra ragione per la quale ho voluto girare questo film è che fosse adatto al pubblico del mio paese, che vedesse che il regista è un iraniano però che ha dovuto farlo in Europa. Per loro il sesso è talmente un tabù che è difficile solo parlarne. Quando il film è passato qualche mese fa al festival di Berlino, l’80% delle persone che sono venute a conoscermi dopo la proiezione erano gay iraniani. Peraltro sono ben consapevole che Opponent non uscirà mai in Iran ma in molti lo scaricano e così lo possono vedere, come so bene che se decidessi di tornare, verrei immediatamente arrestato.

Cosa le manca di più del suo paese?

Mi mancano i parenti, gli odori, incontrare la gente, tuttavia ci sono tante altre cose che non mi mancano affatto: vivere in un posto dove non si è liberi, dove si ha sempre paura, dove cerchi di dire qualcosa controcorrente ma poi ti devi nascondere.

 

La redazione ringrazia Diego Puccio, responsabile del Gruppo I.O. Immigrazioni e Omosessualità del CIG Centro d’Iniziativa Gay – Arcigay Milano per il supporto ricevuto