Cosa accade quando la persona che avevate sposato vi rivela di essere transgender? Quali implicazioni psicologiche, legali e politiche impreviste emergono per chi si ritrova a essere trans widow, una vedova o un vedovo di persona transizionata?

 

Nemmeno due mesi dopo aver fatto coming out come uomo trans, Elliot Page annuncia il divorzio da sua moglie Emma Portner sposata quando era Ellen Page.

La cosa non mi stupisce, ma comunque non mi riguarda. Quanto avviene all’interno di una coppia è privato, e se ne parlo qui è solo perché Page è un personaggio pubblico, che ha scelto di rendere pubbliche tramite opportune conferenze stampa le sue scelte (ma non necessariamente quelle di sua moglie).
 Tuttavia approfitto del caso di cronaca per affrontare un tema che, col moltiplicarsi dei casi di transizione, sta diventando sempre più rilevante, per lo meno nel mondo di lingua inglese: quello delle “vedove” e dei “vedovi” (trans widows) delle persone transizionate.

Il fenomeno, per ora, si sta presentando come problema soprattutto per le donne in un matrimonio eterosessuale anche se, come il caso di Page appena citato dimostra, non è esclusivo di questa realtà. Non so spiegare come mai il problema si ponga soprattutto nel senso MtF piuttosto che FtM, mi limito quindi a registrare il dato, lasciando che sia chi ne sa più a trovargli una ragione.

La definizione di “trans widow” è nata online, sulla chat in lingua inglese per madri di famiglia “Mumsnet“, per poi allargarsi ad altri social media e al web: oltre a una presenza su realtà come Twitter, esistono oggi anche siti come Transwidows.com o “Trans widows voices“. 
Quest’ultimo definisce così il significato del termine:

“Una ‘trans widow’ è una donna (di solito eterosessuale) il cui compagno o marito crede di avere una identità di genere diversa da quella ‘maschile’, o che pratica il cross dressing. Spesso sono anche donne che riferiscono di avere sperimentato che il loro marito o compagno soffre di autoginefilia (AGP). (“Autoginefilia” è un termine, molto controverso, che sostituisce gli ormai obsoleti “travestito” o “crossdresser”, N.d.A.).

Le donne che si trovano in tale situazione riferiscono di sentirsi come se il loro compagno fosse morto. Questo è soprattutto vero se il loro compagno o marito ha fatto coming out come trans e ha deciso di transizionare.

La trasformazione è di solito tanto completa che il loro compagno è irriconoscibile come l’uomo che hanno sposato, sia nell’aspetto che nella personalità.

Alla donna sarà di solito proibito chiamare suo marito con il precedente ‘dead name‘ (letteralmente ‘nome morto’, N.d.A.)”.

Come si noterà dalla scelta di alcuni termini (“crede di avere una identità“) il movimento delle trans widows non è sicuramente comprensivo verso la scelta degli ex. Il che è però logico: le transizioni che si svolgono in modo amichevole non si lasciano dietro “vedove” (al massimo “ex”). Sono solo quelle traumatiche a produrne. Quindi, per definizione, la definizione riguarda solo chi viene da una separazione traumatica.

Ovviamente la transizione in un rapporto eterosessuale può essere risolta anche in modo tranquillo, specie se la coppia non ha figli ed è giovane, o se ha figli ormai adulti e indipendenti. Conosco personalmente casi in cui la relazione è continuata, magari su altre basi. Anzi, nel 2013 fece discutere in Italia il caso della coppia di Finale Emilia che contestò (vincendo) la prassi che, per impedire l’esistenza di matrimoni fra persone dello stesso sesso, imponeva in automatico il divorzio dopo la rettificazione di sesso anagrafico. Le due donne intendevano invece proseguire di comune volontà il matrimonio. L’ obbligo di divorzio, come il tribunale riconobbe, coartava la loro volontà e i loro diritti (e la Consulta, nel confermare che la norma impugnata era incostituzionale, ne approfittò per sottolineare che se lo Stato intendeva davvero gestire l’”anomalia” di due persone dello stesso sesso unite in matrimonio, poteva sempre decidersi a regolare una buona volta le unioni fra persone dello stesso sesso con una legge apposita).

Altri casi però non sono altrettanto semplici, specie se ci sono di mezzo bambini piccoli, e se per curare loro, la moglie (siamo nel 2021 ma è sempre lei a doverlo fare!) ha dovuto rinunciare ad avere un reddito autonomo e non è quindi indipendente.

Oltre agli aspetti materiali, esistono poi aspetti filosofici e politici, che sono rilevanti perfino per il transattivismo più ostile ai diritti delle donne.

Il primo è che, nel caso di un matrimonio, la transizione si configura come una “terapia riparativa” involontaria per l’altr* partner. Se Elliot Page è un uomo, allora sua moglie non è più una donna lesbica bensì una donna eterosessuale. E siccome ogni persona ha il diritto ad autodefinirsi rispetto all’identità di genere e all’orientamento, vedersi sovradeterminare, con un’imposizione e modifica dall’esterno dell’uno o dell’altro, costituisce la violazione d’un diritto personale.

Per questo motivo le leggi che nel mondo regolano la transizione del sesso anagrafico richiedono di solito il consenso del coniuge o il divorzio prima di dare il “via libera”. Ma, e questo è un aspetto spesso occultato nei dibattiti, il transattivismo anglosassone sta chiedendo espressamente ed esplicitamente la soppressione di tale norma (e diffondendo anche all’estero l’idea che sia giusto sopprimere norme di questo tipo ovunque esistano).

Uno dei motivi per cui le femministe inglesi si sono opposte alla cosiddetta “riforma del Gender Recognition Act” (che è la legge che regola la transizione di sesso anagrafico nel Regno Unito) fu proprio la richiesta di abolire il consenso del/la coniuge, giudicato dai transattivisti un diritto di veto (spousal veto) inaccettabile nella libera determinazione individuale.

Logicamente le loro coniugi han fatto notare che chi si sposa ha preso un impegno, reciproco e vincolante per entrambi, e che la modifica di tale accordo deve essere altrettanto reciproco e altrettanto vincolante per entrambe.

Un secondo aspetto rilevante anche per il transchilista più arrabbiato è il concetto stesso di “vedovanza”, che viene contestato come ridicolo.

Che la persona con cui la trans widow si è sposata non esista più non è però lei a dirlo, sono i transattivisti. Il solo fatto di riferirsi al suo nome è, infatti, definito correntemente dal loro “deadnaming“, ossia: “chiamare col nome del morto”.

Mentre molte persone trans non hanno difficoltà a riconoscere la continuità fra ciò che erano prima e ciò che sono dopo la transizione, alcune di loro insistono, invece, sul fatto che non esiste alcun rapporto fra quelle due persone, e che la persona precedente non esiste più, o addirittura non è mai esistita.

Dunque, non esiste nulla di controverso nel riconoscere che se Antonio, che io ho sposato, non esiste più, io che ho sposato Antonio sono vedova.

E non vedo perché devo risultare sposata con Antonia, con cui non ho il minimo ricordo di essermi mai maritata.

Questo delle memorie è infine un terzo punto controverso, raramente riconosciuto dai transattivisti, e citato sempre e solo dalle loro partner e famigliari e amici.

Le memorie condivise, per definizione, sono condivise. Se da un lato io stesso non riesco a capire l’ostinazione con cui determinate famiglie insistono a voler chiamare col “nome da morto” un congiunto che ha transizionato anche dopo molti anni (un dato di fatto è un dato di fatto, negarlo è sia crudele che inutile), dall’altro mi è altrettanto incomprensibile l’ostinazione con cui alcuni transchilisti non comprendono che le memorie condivise non appartengono a loro soltanto. La loro pretesa di “possedere” una sorta di “proprietà intellettuale esclusiva” sul passato, è assurda. Se Antonio era mio padre, io ho dentro di me il ricordo di lui come di un padre. Antonia non ha il diritto di tempestarmi per privarmi del ricordo di mio padre, del mio unico padre. Un ricordo che è mio, è intimo, e nessuno ha il diritto di violare.

Lo stesso vale per il ricordo di Antonio come mio sposo. Io quell’uomo l’ho sposato, io so chi ho sposato, e so perché l’ho fatto (magari mi attraeva la sua virilità!). Dire che Antonio non esiste più può essere “un dato di fatto che è un dato di fatto” e come tale va accettato: nella vita esiste anche la morte, che va accettata. Ma dirmi che “al posto di” Antonio ora ci sta Antonia, spuntata non si sa da dove, e che io devo accettarlo perché il compianto Antonio aveva deciso che così doveva essere prima di sparire dalla mia vita, è pura fantascienza.

Se Antonio è morto, ho il diritto ad essere considerata la sua vedova.

E se Antonia non vuole concedermelo, non vedo perché debba concedere qualcosa io a lei.

Una relazione è fatta di due volontà, non di una sola.

Per fortuna nella vita reale, ossia quella roba che succede offline, ho avuto l’occasione di conoscere persone trans che avevano mantenuto buoni rapporti con la famiglia, sia quella di origine, sia quella composta dai figli e dai coniugi o ex coniugi.

In altre parole, nella vita reale le persone trans sono, in media, infinitamente meno sceme dei transattivisti da social media. Conto quindi di non aver detto nulla al di fuori del comune buon senso per le persone trans reali che ho conosciuto, che si sono dimostrate in grado di risolvere col buon senso, l’affetto e il rispetto, il problema creato nelle loro relazioni stabili dalla loro transizione. Purtroppo però non tutti, al mondo, sono fatti così, pertanto discutere dei problemi creati da coloro che non sono così ha un senso.

Quello LGBT, infatti, è un movimento che si batte per liberare le persone da limiti e catene. È quindi inaccettabile che nella sua evoluzione abbia prodotto frange che ritengono sia suo compito istituire catene matrimoniali obbligatorie per alcune persone (oltre tutto eterosessuali e quindi al di fuori dello scopo per cui esiste il movimento LGBT).

Esistiamo per sciogliere catene, non per crearle o ribadirle.

 

Nota della redazione:

Ci sono almeno due docufilm sul tema, uno italiano del 2013 “Lei è mio marito” per la regia di Anna Maria Gallone e Gloria Aura Bortoini, e uno israeliano del 2018 “Family in transition” del regista Ofir Trainin.