Quante cose possono andare storte in 24 ore a un ragazzo trans e a cosa possono condurre? Lo scopre il protagonista del film “Mutt”, presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2023 e vincitore del premio lungometraggi al 37° MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer di Milano. Abbiamo intervistato il regista e l’attore protagonista.

 

Feña è un uomo transgender ventenne che vive a New York con il destino che ha deciso di metterlo alla prova. In attesa di andare prendere all’aeroporto suo padre Pablo che non incontra da due anni e arriva dal natio Cile, si ripresentano inaspettati nella sua vita anche il suo ex ragazzo etero John, per cui prova ancora sentimenti forti, e la sorellastra di 13 anni in crisi Zoe che la comune madre americana ha allontanato da lui.

Avendo volutamente tagliato i ponti con il passato a causa della transizione che è ancora nelle fasi intermedie, ha iniziato da poco a prendere il testosterone ed è reduce dall’intervento di mastectomia che è stato molto doloroso, ogni ricongiunzione è come se lo caricasse su un giro gratis di montagne russe emotive che lo costringerà a fare i conti sia con il passato sia con il presente e probabilmente a prendere in considerazione come definire il proprio futuro in generale.

Tutto questo capita mentre deve confrontarsi con le sfide quotidiane che una persona transgender con i documenti d’identità non ancora allineati al proprio aspetto fisico subisce, e che in generale non si conoscono, non si capiscono e molto probabilmente non interessano chi non le vive, perché sono esperienze molto lontane. Un modo per tenere le distanze mentali, che non riguarda solo il mondo eterosessuale ma anche in gran parte quello gay e lesbico.

La famiglia di elezione, chi ci capisce e accetta per chi e come abbiamo bisogno di essere, a questo punto diventa una zona di comfort, che però è anche una barriera che rischia di rendere impossibile un confronto con chi è diverso da noi. Entrambe le parti, infatti, si proiettano aspettative, pregiudizi, ansie e quindi ci vogliono pazienza, intelligenza e formazione per ricostruire ponti di comunicazione e arrivare a comprendersi meglio.

Causandogli stupore, la mezza sorella che ha solo desiderio della sua presenza nella sua vita non farà una piega davanti al coming out transgender di Feña, uno dei pochi nomi gender neutral in spagnolo cileno. Il padre gli farà capire che gli è vicino, ma ha bisogno e diritto a del tempo di qualità trascorso insieme per riallineare le proprie coordinate interne con lui. Il personaggio più problematico si rivela essere l’ex fidanzato, in estrema difficoltà nell’entrare in empatia con Fernanda diventata un uomo gay, che rischia di restare incinta dopo una notte insieme di sesso non protetto perché la cura ormonale è ancora agli inizi, quindi lui cosa è e cosa vuole?

Feña in realtà non si fa più domande su di sé, piuttosto spiega o è costretto a spiegare sé stesso, la sua presenza, il suo essere costantemente in mezzo tra diversi mondi, che non riguardano per forza la sua identità di genere. Il commento al premio della giuria del 37° Mix Festival è che Mutt è forse il primo film con un protagonista trans “che abbia un registro narrativo lontano dagli stereotipi, non pietistico, e pienamente rappresentativo della vita del protagonista e di chi lo circonda”. 

Uno dei punti di forza di questo primo lungometraggio di Vuk Lungulov-Klotz, basato sulle proprie esperienze di vita (è figlio di genitori cileni e serbi), oltre all’interpretazione di Lío Mehiel (origini portoricane e greche), entrambi sono persone FtM, è che essendo completamente a proprio agio con il proprio corpo Feña permette alla narrazione di cominciare ben al di là della “classica” storia di un percorso di transizione medicalizzata.

Il film quindi parla della in-betweenness, essere o appartenere al contempo a realtà bifronti, a come tenerle insieme per conviverci, a doverlo far capire in continuazione: doppia etnia e cultura, sesso biologico e genere auto-percepito, orientamenti sessuali ed affettivi. Un’innovativa presa di parola transgenere che sposta in avanti con estrema intelligenza anche i confini dell’attuale cinematografia queer.

Abbiamo posto a Vuk e Lío alcune domande, tra cui la scelta del titolo Mutt traducibile con “meticcio”, termine che in italiano contiene una sfumatura negativa: non di razza pura bensì mista. Come ci ha spiegato il regista non è questo il senso che lui ha voluto dare alla sua opera, molto acclamata anche all’ultima Berlinale.

Vuk, sul palco alla serata di apertura del MiX festival prima della proiezione hai detto che avevi l’urgenza di fare questo film. Puoi spiegarcelo meglio?

Mi fanno spesso questa domanda e mi chiedo sempre come io possa rispondere nel modo giusto. Ho sempre avuto bisogno di fare film, di raccontare storie e per me era ovvio voler fare questo film, perché non ho mai visto una pellicola dove mi sono rivisto sullo schermo, né io né le mie sorelle o i miei fratelli trans. Invece c’è molto di me e della mia vita in questa narrazione. Volevo crearne una in cui un uomo trans potesse essere imperfetto. Ci sono un sacco di pellicole dove uomini cis bianchi sono anti-eroi e possono fare quello che vogliono. Io volevo quella cosa, volevo raccontare di un banale lunedì in cui vediamo un uomo trans essere un fratello maggiore, un ex-fidanzato, un figlio, abitando il suo spazio molto umano in un contesto molto umano.

Volevamo sapere anche qualcosa sul titolo, perché meticcio è una parola che in italiano si usa poco riferendosi a persone nate da genitori di etnie diverse (in specifico è riferito all’incrocio di bianchi e popolazioni indigene delle Americhe preesistenti all’arrivo degli Europei, N.d.R.) e questo tema non ci è sembrato centrale.

Io vengo dal Cile e abbiamo la parola kiltro, che appartiene al vocabolario mapudungun, una delle lingue native del paese, che usiamo per descrivere persone con origini etniche miste e la connotazione può essere un po’ negativa. Ho portato quest’idea in inglese, e volevo una parola che parlasse dell’essere nel mezzo, che parli dell’avere origini miste ma anche dell’essere trans e del non incastrarsi perfettamente mai in una cosa o nell’altra, essere sempre un po’ lasciato nel tra qua e là.

Un’altra cosa davvero interessante di questo film è che hai deciso di mostrare una parte della vita di un ragazzo trans che solitamente non è mostrata: un momento successivamente alla transizione. Feña non si sta facendo delle domande sulla sua identità di genere, è già un uomo trans. Si sa qualcosa del suo passato solo dalle parole della gente che lo aveva conosciuto prima.

Sì, è un film che parla di post-transizione, questa è forse la maniera più precisa per definirlo. Io sono stanco di parlare di transizione, voglio solo vedere una persona trans esistere. Se sei una persona trans – sono sicuro che noi tre possiamo essere d’accordo su questo – il tuo passato ti verrà sempre ricordato anche se come me sei da più di 10 anni in dopo transizione. Invece tutto il tempo mi fanno domande e parlo di com’è essere una persona trans. Anche se il personaggio di Feña è in post-transizione, il mondo glielo ricorda in continuazione quindi sembra ancora un po’ una storia di transizione, specialmente con il padre o con la sorella, in quanto loro si stanno ancora mettendo al passo con il protagonista. 

Penso che molto pubblico queer si senta lontano dai film queer, perché questi film non sono scritti da persone queer e volevo mostrare qualcosa di nuovo. Per me è quasi irrilevante che Feña sia trans, perché è una storia sull’avere un padre immigrato, essere un disastro a vent’anni, avere un ex-fidanzato e sull’essere egoisti. Sì, avevo bisogno di un film così e per questo ho voluto farlo.

C’è una battuta nel film, quando l’ex fidanzato di Feña è molto arrabbiato con lui e gli dice: “La gente non ti odia perché sei trans, ti odia perché sei uno stronzo”.

Vuk: Amo quella battuta! Sono diventato una persona molto egoista, perché ero così ferito e mi sentivo così incompreso in ogni momento. Pensa a quando entri in una stanza e pensi che nessuno possa capirti e indossi questa spessa armatura. Questo film è sul togliere quest’armatura, come quando Feña realizza “ok, queste persone non mi faranno del male, sono qui per capirmi più di quanto pensassi, quindi forse mi mostrerò a loro”.

Lío: È molto bello quello che dici, non ti avevo mai sentito dire questa cosa, molto bello!

Vuk: (scherzando): Non ci siamo mai incontrati allora.

Lío: Tu chi sei? (ride) Sì, è bello e penso che sia vero riguardo al film.

Lío Mehiel e Vuk Lungulov-Klotz

Ora una domanda a te Lio, così puoi parlare anche tu e non ci diciamo solo cose tra registi trans. Come ti senti, in quanto attore trans, a essere parte, anzi a essere il protagonista, di uno dei primi film – posso dire mainstream? – che racconta un protagonista trans senza stereotipi? È stato diverso lavorare con un regista trans?

Il mio lavoro di attore è di stare nella mia vulnerabilità e l’unico modo in cui mi posso sentire sicuro nel farlo è se sento che non devo recitare me stesso, ma solo il personaggio della storia per il pubblico. Nel film indosso quasi sempre una canottiera bianca e cammino con passo pesante in giro per New York. Il fatto che Vuk è un regista uomo trans mi ha fatto sentire al sicuro e sicuro nella mia mascolinità. Quando un o una regista è cisgender e magari non conosce molte persone trans, in qualche modo devo rappresentare il mio genere e andare bene a questa persona invece di fare il mio lavoro ed essere emotivamente onesto. Vuk mi conosceva e mi accettava, quindi mi sono potuto concentrare sul personaggio e non su me stesso o su recitare me come persona queer.

Quindi mi sento meravigliosamente, e non mi aspettavo che il film avesse l’impatto storico che sto realizzando ha avuto e sta continuando ad avere, perché siamo già stati inclusi in questa lista di film queer che hanno cambiato la storia! Noi non siamo ancora parte della storia, sta ancora succedendo, siamo nel presente, però siamo stati paragonati a film come But I’m a Cheerleader (in Italia uscito con il titolo Gonne al bivio, N.d.A.) che è stata una delle prime volte in cui la gente ha visto sullo schermo una storia apertamente lesbica. In maniera simile la nostra è stata una delle prime volte che c’è un lungometraggio di finzione pensato per il grande pubblico, con protagonista un ragazzo trans, scritto e diretto da un ragazzo trans, non sperimentale e non pensato per essere proiettato in un cinema d’essai o per stare in un museo, bensì fatto per essere nelle sale con ragazzi di 17 anni che possono andare a vederlo. 

Mentre stavamo girando non mi rendevo conto di che cosa sarebbe stato, perché per me era già stato speciale esserne parte. In quanto attore trans nella maggior parte dei ruoli per cui ho fatto provini la motivazione primaria nella storia era fare coming out e dire tipo: “Sono trans, questo è l’intero conflitto del mio personaggio”. Poter quindi recitare un personaggio in qui questo aspetto è secondario, che non sta capendo di essere trans ma sta negoziando le sue relazioni, è fantastico.

Inoltre è il protagonista, quando gli attori e le attrici trans nei media, nei film, in televisione, spesso sono personaggi secondari, migliore amico/a, stagista, la migliore amicizia asessuale, insomma una persona in qualche modo disumanizzata. Recitano questa specie di ruolo archetipico invece di essere l’interprete principale ed essere in ogni scena mostrando un grande spettro di esperienze emotive e di verità.

È una cosa che ogni attore vuole fare e io penso che gli attori e le attrici trans non hanno ancora avuto molte opportunità in tal senso. Mi sento onorato di averlo fatto persino prima di Elliot Page che ha appena portato il suo film Close to you al Toronto International Film Festival. Quello è il suo primo lungometraggio fatto senza condizionamenti e noi l’abbiamo fatto prima di lui! Accidenti, è folle, il tempismo è stato molto karmico secondo me.

Vuk: Allo stesso tempo è stata una pentola a pressione sul fuoco per anni: aspettavamo di saltare fuori. Sembra di aver raggiunto il punto di ebollizione, è come una grande onda che ora si infrangerà in senso buono. Abbiamo visto Pose, Orange is the New Black, tutti questi show hanno piantato molti fantastici semi e ora se ne stanno vedendo i frutti.

Lío: È stato incredibile vedere che questo anno sono usciti un sacco di film a tematica trans girati mentre stavamo filmando noi: I Saw the TV Glow, poi My Animal ha debuttato al Sundance, Ponyboi subito dopo. Improvvisamente siamo in questo momento rinascimentale grazie a tutto il lavoro che c’è stato prima di noi.

In Italia fondamentalmente i lavori sugli uomini trans sono soprattutto sulla transizione, spesso documentaristici. Qui invece la storia gira intorno a un giorno in cui tutto va storto. È divertente perché è quasi surreale. Inoltre i lavori riguardanti persone transgender di solito parlano di donne MtF, e soprattutto in Italia gli uomini FtM semplicemente non esistono.

Vuk: Se non esistiamo nell’Arte è difficile per una persona trans credere che possiamo esistere e che abbiamo una speranza di vita. Io ho solo due amici che sono uomini trans sopra i quarant’anni e tutte le volte che usciamo a cena realizzo che ho bisogno di vederli invecchiare, ho bisogno di vederli esistere, non di vedere solo un ventenne che fa coming out perché non è tutto quello che siamo. Come divento un adulto se non mi ci sono mai visto riflesso? Nel bene e nel male i film ci danno il diritto di esistere. Essere sexy sullo schermo ti fa pensare che puoi essere bello e desiderabile per le persone. Quindi penso che sia molto importante vederlo, vedere semplicemente te stesso come essere umano. In parte è per questo che sono diventato un cineasta.

Parlando della rappresentazione, come ultima domanda, Vuk ti chiedo se ci sono opere o artisti che ti hanno ispirato, in qualche modo, nella stesura o nel girare questo film.

Sicuramente sì, però penso sia la domanda meno preferita da ogni regista, ma solo perché la mia relazione con i film è un caos rispetto a quanti ne guardo. Ci sono pellicole che guardavo quando ero teenager che non posso dire non abbiano influenzato il mio lavoro, e anche se non penso sia qualcosa che sto mettendo nel film sono lì. Per esempio i lavori di Xavier Dolan sono molto importanti per me. Quando avevo diciassette/diciotto anni Weekend di Andrew Haigh, è stata la prima volta in cui ho visto una coppia di uomini conoscersi in due soli giorni in modo vero. Al di là di essere gay o no, penso che Hollywood forza molto la dinamica “ragazzo incontra ragazza” in maniera molto finta. Infine io adoro che non ci siano stacchi temporali, ci sta così tanto dramma in 24 ore!