Si sono da poco conclusi sia la Biennale Teatro di Venezia che il Campania Teatro Festival a Napoli, due prestigiose ribalte per artisti affermati e nuovi talenti da valorizzare sia italiani che stranieri. Abbiamo selezionato alcuni spettacoli che hanno affrontato temi vicini alla comunità LGBT con storie di coming out difficili, il legame con i genitori, il mondo e i rituali dei femminielli e le misteriose dinamiche del desiderio.

foto di apertura di Salvatore Pastore da “Vico Sirene”

 

Al loro terzo anno al timone della Biennale Teatro, Stefano Ricci e Gianni Forte hanno confermato la linea artistica operata sin dall’inizio del loro mandato: quella di far conoscere nel nostro paese artisti e spettacoli italiani e stranieri ancora poco noti o mai visti da noi, sebbene già affermati all’estero. Nelle loro opere sofisticate tecnologie si mescolano all’uso dei video e della musica che talvolta diventano preponderanti. Dopo il blu del 2021 e il rosso dello scorso anno, è il verde il colore che ha distinto l’edizione 2023. Emerald, infatti, il nome con cui è stata intitolata la rassegna. Smeraldo come pietra dei prodigi, gemma attraverso la quale osservare il mondo, ma pure il mistero e l’inspiegabile e infine il verde come segnale di risveglio, auspicabile rinascita non solo della natura bensì anche dell’ambiente in cui viviamo.

L’assegnazione dei Leoni alla carriera ha visto vincitore Armando Punzo per quello d’oro, mentre quello d’argento è andato al collettivo belga FC Bergman. Il primo, che ha dedicato gran parte dell’attività di regista alla Compagnia della Fortezza, creata con i detenuti del carcere di Volterra, ha presentato in anteprima il suo ultimo lavoro Naturae, ricco di riferimenti e citazioni (dal sufismo al teatro orientale), ulteriore tappa di una ricerca iniziata otto anni fa sull’ordine e la bellezza della natura umana.

FC Bergman (un chiaro omaggio al regista svedese) ha scelto un capannone della zona industriale di Marghera per ambientarvi Het Land Nod (La terra di Nod), trasformarndolo nella Galleria Rubens del Museo Reale di Belle Arti di Anversa (la loro città), dov’è in mostra dipinto Il colpo di lancia, raffigurante Gesù in croce tra i ladroni, destinata a un restauro che si presenta assai problematico data la difficoltà e gli imprevisti nel rimuoverla dalla parete, il tutto in chiave ironica, talvolta esilarante.

Tra i molti spettacoli visti in questa ricca edizione, ci soffermiamo solo su quelli che hanno trattato temi o contesti che possono suscitare l’interesse della comunità LGBT oppure su artisti dichiaratamente omosessuali. Federica Rosellini (già protagonista dell’Amleto diretto da Antonio Latella) ha messo in scena e interpreta Veronica, testo di Giacomo Garaffoni, vincitore della Biennale College dello scorso anno, in cui si muove una sorta di gineceo composto da un gruppo di amiche che evocano una di loro, appunto Veronica, mancata dieci anni prima. Rosellini, a seno nudo, si taglia ciocche di capelli per posizionarle a mo’ di baffi e pizzetto e in seguito dà vita a un tenero amplesso con una delle giovani donne. Siamo nel territorio della performance ai confini con l’installazione e, oltre alla regista, vi partecipano Serena Dibase, Nunzia Picciallo, Elena Rivoltini e Nico Guerzoni. La complessa scenografia con alberi e arbusti è di Paola Villani.

Het Land Nod – foto: Andrea Avezzù

Matthias Andersson, regista svedese pluripremiato e direttore del glorioso Dramaten, il Teatro Reale di Stoccolma, dove per molti anni operò Ingmar Bergman, ha proposto uno dei lavori più originali visti nella rassegna, Noi che abbiamo potuto rivivere tutto da capo, prodotto insieme al Backa Teater di Goteborg. Lo spunto viene da una serie d’interviste che un team di sociologi ha realizzato con un campione di 137 persone di diversa estrazione socio-economica al quale è stato chiesto cosa avrebbero fatto se avessero potuto rivivere la loro vita.

Con tanto di nomi e cognomi in sovraimpressione, ecco sfilare i personaggi che soddisfano la nostra curiosità in un’infinita varietà di risposte. C’è chi avrebbe aspettato a fare un figlio non prima dei 30/35 anni, chi a 17 anni avrebbe potuto cogliere una chance mai più ripetutasi, una donna avrebbe fatto volentieri la contadina anziché vivere in un ambiente urbano, un uomo si sarebbe dedicato più al sesso, un altro sarebbe stato più accorto nello scegliere cibi sani, un altro ancora avrebbe fatto coming out molto prima. Tocca poi a uno dei componenti di una coppia gay, che ricorda come odiasse il compagno a causa del modo in cui mangiava e dei rumori che produceva a tavola.

Le parole lasciano presto il posto a un’azione in cui due coppie etero iniziano a litigare al ristorante sino al punto di procedere a uno scambio di partner: l’uomo e la donna lasciati in asso non la prendono bene e per vendicarsi distruggono tutte le fotografie che li ritraevano insieme all’ex compagno/a. A queste unioni in crisi fanno da contraltare due coppie omosessuali – lei con lei e lui con lui – decisamente serene mentre si apprestano a incontrare un gruppo di amici. Queste scene sono quasi prive di dialoghi e basate più sulle coreografie, altro punto di forza dello spettacolo. Ci sono performer che vestono abiti femminili come nel caso di un simbolico funerale dove tutte e tutti sono vestiti in lungo nero o nel finale in candidi abiti da sposa. Nel ballo di chiusura non ci sono discriminazioni né in materia d’identità sessuale né di abilità, infatti, c’è anche un’anziana signora che volteggia leggiadra in carrozzina.

Mattias Andersson – Noi che abbiamo potuto rivivere tutto da capo

“Dal momento che il teatro – afferma Andersson – ha sempre a che fare con il concetto di cosa succederebbe se… piuttosto che con la creazione di immagini fisse e definite, esso ha alla base qualcosa di aperto e libero in termini di immaginazione e associazioni. Il teatro quindi ci rivela che nessun essere umano è costretto a essere intrappolato in una certa situazione o posizione fissa, in ogni ambito tutto può cambiare.”

Nel suggestivo spazio del Teatro alle Tese dell’Arsenale, lo spettacolo si è avvalso di un eccellente gioco di squadra del quale gli artefici sono Adel Darwish, Ylva Gallon, Rasmus Lindgren, Marie Richardson, Magnus Roosmann, Nemanja Stojanovic, Kjell Wilhelmsen e Nina Zanjani impegnati in una sorta di concerto a più voci, con incursioni canore di Edith Piaf e le note dell’appropriato Non, je ne regrette rien o degli Alphaville con Forever Young. Le coreografie sono firmate da Cecilia Milocco, le scene e costumi da Maja Kall.

Boris Nikitin è uno degli artisti più interessanti del teatro in lingua tedesca. Regista e drammaturgo, figlio di immigrati ucraini, slovacchi, francesi ed ebrei, nato a Basilea nel 1979, da oltre tredici anni attraverso le sue produzioni (alcune in forma di happening) indaga sulla creazione e rappresentazione della realtà e dell’identità. I suoi lavori si muovono al confine tra il teatro di finzione e la performance, tra documentario e propaganda e sono spesso crudi, frontali, sempre alla ricerca dei limiti e dei punti di rottura dell’estetica. Alla scrittura e alla regia alterna la docenza all’università di Francoforte e alla Scuola della Arti di Zurigo. Nei suoi ultimi testi Nikitin si dedica sempre più al rapporto tra arte e malattia, come si evince da uno dei due, Versuch über das Sterben (Sul morire) che ha portato alla Biennale. L’altro è Hamlet, datato 2016 e ripreso quest’anno dopo una pausa di tre anni per il festival Internacional de Buenos Aires, probabilmente la sua opera più importante e acclamata dalla critica.

Boris Nikitin – Hamlet

Solo ispirato a Shakespeare, si potrebbe definire un crossover tra performance documentaristica e teatro musicale dallo stile queer e punk, protagonista il performer e musicista Julian Meding che veste i panni di un Amleto contemporaneo che si ribella alla realtà. Accompagnato dal quartetto d’archi Der Musikalische Garten, Meding, corpo androgino e capo rasato, rivela se stesso e la sua biografia davanti al pubblico. Parla della sua infanzia, di come ha costruito la sua personalità, del rifiuto dell’impotenza e la necessità di agire, anche distruggendo, su ciò che lo circonda, a partire da se stesso. Sorge il dubbio che siano tutte bugie ma è la fascinazione che prevale. Candido e manipolatore al tempo stesso, a disagio come un adolescente e sicuro come una rock star. Questo Amleto è Julian, un Amleto destabilizzato da un mondo percepito come falso e ingannevole al punto di fingere la pazzia e giocare con la sua stranezza. Ecco allora citazioni, filmini casalinghi in super 8 con feste di bambini e un’incursione in un reparto geriatrico. A un certo punto Julian impugna la chitarra e inizia a cantare però poi getta lo strumento a terra e s’interrompe. La riprenderà nel finale e concluderà la canzone con il quartetto in un perfetto mix tra tradizione e innovazione.

Sappiamo quanto il personaggio (o meglio lo spettro) del padre sia importante per Amleto, e nella scrittura dell’Hamlet, Nikitin ha molto ripensato al suo e un anno dopo la sua morte a causa della SLA ha iniziato a scrivere una sorta di diario con la storia della sua malattia che è stata assai rapida, pochi mesi dalla diagnosi alla fine, interfacciandola con il suo coming out avvenuto 20 anni prima. “Quando avevo 17 anni pensavo fosse impossibile dichiarare la mia omosessualità, era davvero fuori discussione. Nessuno doveva saperlo, altrimenti il mondo sarebbe crollato, poi a 20 anni ho aperto quella porta e l’ho attraversata. Da allora so che il futuro è imprevedibile.”

Boris Nikitin – Sul morire

È nato così Sul morire, una performance in forma di reading con Boris seduto in scena alla Sala d’Armi dell’Arsenale a ripercorrere le tappe del calvario del genitore e la presa coscienza della sua vera identità con cui cominciare a pacificarsi. Da una parte l’iniziale rifiuto del padre della realtà della malattia che poi ha dovuto accettare e subire, sino a prendere in considerazione l’idea del suicidio assistito, legale in Svizzera, dall’altra gli stati d’animo di Boris prima e dopo il coming out. Per la prima volta Nikitin ha portato se stesso sul palcoscenico in quello che è senza dubbio il suo spettacolo più personale, una testimonianza rigorosa, sincera ed emozionante, meritevole di essere fruita da tanti giovani alle prese con gli stessi problemi e dilemmi con la quale abbiamo concluso al meglio le nostre visioni veneziane, in attesa di sapere quale colore sceglieranno ricci/forte per il prossimo anno.

In un mese di programmazione il Campania Teatro Festival, con la direzione artistica di Ruggero Cappuccio e il sostegno della Regione Campania, in ben 11 sezioni che spaziano tra teatro, danza, musica, letteratura e progetti speciali, ha presentato un’eccellente selezione di spettacoli in anteprima, ospitando i lavori di affermati artisti e dando anche visibilità e valorizzando quelli delle giovani promesse del territorio. Per quanto riguarda la sezione teatrale, tra i primi ricordiamo Antonio Latella, Moni Ovadia, Alessandro Preziosi, Andrée Ruth Shammah, Angela Pagano e Massimo Venturiello. Fra i secondi meritano almeno una menzione Edoardo Sorgente con il suo originalissimo La tragedia di Riccardo III e la compagnia Nest di base a San Giovanni a Teduccio con la rivisitazione di Premiata pasticceria bellavista, ormai quasi un classico di Vincenzo Salemme.

Fortunato Calvino, partenopeo verace, drammaturgo e regista, già vincitore del premio Carlo Annoni per la drammaturgia LGBT con La resistenza negata e più volte in cartellone al festival Lecite Visioni di Milano, dopo nove anni ha rimesso in scena Vico Sirene chiamando a sorpresa come protagonisti Gigi&Ross (Luigi Esposito e Rosario Morra), cabarettisti di razza, diventati popolari sia in radio che in televisione, a interpretare Nucchetella (Gigi) e Scarola (Ross), due maturi femminielli che convivono pur con caratteri diametralmente opposti. Tanto la prima è fumantina, suscettibile e autoritaria, quanto la seconda è ingenua, arrendevole e conciliante. Il loro quindi è un ménage spesso tumultuoso ma ci sono anche momenti di tenerezza, come quando ricordano i bei tempi della loro “professione”, chiamate a soddisfare necessità e sfizi di decine di giovanotti.

Con loro interagisce un variopinto ed eccentrico gruppo di amiche, alcune ancora in attività: c’è Mina che ha velleità artistiche e con le sue incredibili parrucche canta i successi della Tigre di Cremona; la Pescivendola, l’unica con una fiorente attività, disponibilità economiche e un compagno appassionato; Cocacola, spigolosa e attaccabrighe, e Susy, più giovane e avvenente, legata a un uomo sposato che la fa soffrire. Tra sfottò, frecciatine avvelenate e vere e proprie liti, diventiamo partecipi della loro quotidianità e le vediamo riappacificate nell’imminenza di una festa di quartiere.

La serenità però non dura molto e la commedia si tinge di noir. Arriva la notizia che Susy, scomparsa da giorni, è stata ritrovata cadavere su una spiaggia, uccisa forse da un cliente. Forte è il dolore che non impedisce al gruppo di iniziare le ricerche del colpevole che sarà poi trovato e rimarrà in loro balia prima di essere consegnato alle forze dell’ordine. Il finale è altrettanto cupo e vede una tombolata presieduta da Nucchetella, accigliata e minacciosa. Ricco di sapidi dialoghi e battute fulminanti, nell’accattivante testo di Calvino (il cui titolo si rifà ai vicoli dei Quartieri Spagnoli e alla sirena Partenope) non mancano riferimenti alla marginalità e all’omotransfobia come nel richiamo all’agguato di cui fu vittima Pasolini, simile alle modalità della morte di Susy. “Vico Sirene – ci dice l’autore – è un viaggio nelle profondità dell’anima, di una vita che pulsa da secoli nelle vene di questa città, straordinaria madre, magnifica incantatrice e a volte perfida matrigna. Il mondo dei femminielli con i loro riti (dalla “figliata” al matrimonio) resta e rimarrà una realtà storica radicata nel tessuto sociale di Napoli.”

Vico Sirene – foto: Salvatore Pastore

Ottima la prova di Gigi&Ross che, oltre alla perfetta sintonia, rivelano insospettate doti drammatiche, sia quella del complesso degli attori/attrici abitualmente presenti nei lavori del regista come Luigi Credentino, Dario Di Luccio, Ciro Esposito e Marco Palmieri. La scena che raffigura l’interno di un tipico basso è di Clelio Alfinito, gli sfarzosi costumi sono di Francesca Romana Scudiero e le musiche di Paolo Coletta. Debutto festeggiato al teatro Nuovo mentre nella prossima stagione lo spettacolo si potrà vedere ai teatri napoletani Bracco (dal 9 al 12 novembre) e Troisi (dal 18 al 21 gennaio 2024).

Curzio Malaparte (1898-1957) è uno dei nostri scrittori forse un po’ trascurati negli ultimi decenni. Il suo nome è associato ai romanzi La pelle del 1949 (portato anche sullo schermo da Liliana Cavani nell’81) e Kaputt. Il primo è ambientato a Napoli nel 1943, quando la città è stata liberata dalle truppe alleate e a far da narratore è il colonnello Jack Norton (alter ego dello scrittore) che, di stanza in una base militare americana, racconta il degrado di una popolazione stremata dopo tre anni di epidemie e di bombe, impoverita e affamata che arriva al punto di vendere i bambini o la verginità delle adolescenti e cercare nella prostituzione, femminile e maschile, l’unico mezzo di sopravvivenza.

Per contrasto ci sono i soldati che, sazi e profumati, passeggiano per via Toledo in cerca di compagnia, cosa che fa sentire Norton un vigliacco che assiste impotente a quella realtà. In Kaputt, Malaparte ripercorre invece la sua esperienza di ufficiale del regio esercito e corrispondente per il Corriere della Sera dal fronte russo tra il ’43 e il ’45. È noto che in gioventù fu fervente sostenitore del fascismo, interventista e partecipante alla marcia su Roma, ideologia da cui però anni dopo si dissociò tanto da venir allontanato all’estero nel 1933. Rientrato grazie all’amicizia con il genero di Mussolini, si avvicinò al Partito Comunista sino a diventare il cronista ufficiale di Palmiro Togliatti. Nel 1950 La pelle, condannato dal Vaticano, fu messo all’indice dei libri proibiti. Una delle cause probabili fu l’immagine positiva che Malaparte dava dell’omosessualità, definendo gli omosessuali “rose di carne e fiore sbocciato ai limiti della coscienza dei nostri tempi”, oltre a condannare l’imperante omofobia della Chiesa e della classe politica con la Democrazia Cristiana al governo. È un libro che mescola fatti reali e talvolta inventati e surreali, dove la peste è il male dell’anima.

Capri – The Island of Fugitives – foto: Salvatore Pastore

A questo e a Kaputt si è ispirato il regista, drammaturgo e scenografo polacco Krystian Lupa per Capri – The Island of Fugitives, un potente affresco di oltre sei ore, diviso in tre blocchi che corrispondono ai rispettivi atti, destinato a un pubblico adulto. Lupa, uno dei Maestri del teatro internazionale, ora ottantenne, continua l’esplorazione della condizione spirituale dell’uomo in un’era di profonda trasformazione culturale. Quest’ultimo suo lavoro è un affascinante mosaico composto da recitazione, proiezioni di spezzoni di autentici reperti d’epoca e filmati girati ex novo che si connettono a quanto sta accadendo in palcoscenico. Capri è l’isola dove Malaparte abitava in una villa a forma di piramide rovesciata, lasciata poi per sua volontà in eredità ai cinesi di Mao che l’hanno fatta andare in rovina.

Qui Lupa, che firma testo, regia e scenografia, immagina ci si sia rifugiato un campione di varia umanità, a cominciare dal cast del film Il disprezzo (tratto dal romanzo di Moravia) e diretto da Jean Luc Godard con Brigitte Bardot, lo scrittore svedese Axel Munthel, ufficiali, soldati e lo stesso Malaparte, per sfuggire a un’imminente guerra o catastrofe annunciata. Il primo blocco, un po’ criptico per i non polacchi, ci riporta al periodo della dominazione del paese da parte delle truppe di Hitler.

Il secondo, che si richiama a Kaputt, pone al centro il personaggio dello scrittore in divisa, prima circondato da notabili che conversano amabilmente sulle atrocità compiute dai nazisti mentre sullo schermo appaiono i cadaveri del ghetto di Varsavia e un filmato mostra l’esecuzione di un bambino da parte di un soldato, osservata con indifferenza da un gruppo di signore in abito da sera. A seguire ci spostiamo in uno dei bordelli creati per i militari dove sono reclutate a forza ragazze ebree che raccontano l’incredibile vita a cui sono costrette (avere ad esempio 50 rapporti al giorno), come fossero animali in cattività, destinate a essere sostituite, ormai distrutte, dopo 20 giorni per poi venire subito eliminate. Malaparte ne ha pietà e rifiuta di accompagnarsi a una di loro, preferendo la compagnia di un uomo nudo che lo segue come un’ombra accarezzandolo e che palesemente lo desidera.

Capri – The Island of Fugitives – foto: Salvatore Pastore

Il terzo atto riprende, invece, molti temi sviluppati nella Pelle: qui lo scrittore appare in abito bianco con le funzioni del narratore-osservatore. Dapprima segue gli avvenenti giovanotti napoletani che si raccolgono nelle case d’appuntamento delle “signorine” e s’intrattengono tra loro, mentre altri spinti dal bisogno si prostituiscono nei bordelli gay dove confluiscono i tanti stranieri sbarcati in città in cerca di sesso a pagamento. Fred è uno di questi e invita gli amici, tra cui Malaparte, a raggiungerlo a Torre del Greco dove un gruppo di femminielli suoi conoscenti inscenerà la celebre “figliata”, il parto di un uomo in cui lui stesso impersona la partoriente. Tra canti propiziatori dal ventre sbuca un’orribile bambino con un enorme fallo di legno, a seguire tutti gli astanti danno vita a una lunga, irrefrenabile orgia.

Una scena davvero potente che ha per sfondo gli affreschi erotici rinvenuti a Pompei. Impossibile citare i 31 interpreti, tutti egualmente strepitosi, che alla fine avanzano silenziosi in proscenio e si guadagnano i meritati, prolungati applausi del pubblico del teatro Politeama che, nonostante la lingua polacca sovratitolata, ha seguito lo spettacolo con estrema attenzione. Immagini video di Nathan Berkowicz e Adam Suzin, costumi di Piotr Skiba e musiche di Bogumil Misala.

La sezione Internazionale ha visto, tra gli altri, la presenza della star John Malcovich che, accanto all’attrice lettone Ingeborga Dapkunate, si è cimentato con In The Solitude of Cotton Fields, il capolavoro del francese Bernard-Marie Koltès, scomparso a causa dell’AIDS a soli 41 anni, diretto dal regista russo Timofey Kulyabin. L’originalità della sua rilettura, posto che la pièce era stata scritta per due personaggi maschili, il venditore e il cliente, legati da una sotterranea attrazione, sta sia nell’aver affidato i ruoli a un uomo e a una donna, sia nella scelta di aver dato la connotazione di una prestazione sessuale alla natura della misteriosa trattativa. A conferma del grande talento di Malcovich e Dapkunate lo scambio dei ruoli tra loro in una performance di altissimo profilo, ideale chiusura del festival.