Il 35° MIX Festival di Milano ha presentato in esclusiva, alla presenza dei due registi, le prime due puntate della serie TV spagnola Veneno, un biopic su una donna transessuale artista alquanto controversa. Un caso nazionale in patria prima e un successo internazionale dopo. Abbiamo chiesto a un commentatore d’eccezione di fare loro un’intervista.

 

Realizzata per Antena Tres España e distribuito in molti paesi del mondo (HBO Max negli USA) Veneno, nota anche come Veneno: Vida y Muerte de un Icono, è un’esplosiva miniserie TV del 2020 ideata e creata dai registi Javier Ambrossi e Javier Calvo, dove s’incrociano trame, prima di tutto la storia personale come persona e come personaggio di Cristina Ortiz Rodríguez “La Veneno”, controversa e contestata figura queer della Spagna post franchista.

La conosciamo dall’infanzia in un pueblo arretrato con una famiglia che la rifiutava alla scelta forzata di vivere come prostituta a Madrid, fino al successo come showgirl in programmi TV basati su curiosità e provocazione e ai problemi con la giustizia per truffa finendo in carcere (in un carcere maschile, perché non aveva cambiato il suo nome all’anagrafe né il proprio sesso sui documenti d’identità). Sullo sfondo le relazioni amorose con amanti spericolati (uno italiano) e uomini famosi desiderosi di proibito quanto di anonimato.

È su questo che s’innestò l’impegno di Valeria Vegas, scrittrice e giornalista allora giovanissima, a mettere insieme la sua biografia da cui è tratto lo show, finché nella realtà come nella serie TV avverrà un colpo di scena. A libro pubblicato interviene come una dannazione la morte di Cristina Ortiz nel 2016, che molti sospettano essere stata un omicidio commissionato.

La narrazione TV apre squarci su più dimensioni e problematiche e “los Javis” partono dall’intimità, dalla fragilità umana e dalla rete di amicizie per costruire una tragedia moderna che coinvolge e travolge emotivamente gli spettatori.  

Pochi fortunati hanno potuto assistere alla proiezione su grande schermo, poco valorizzata, delle prime due puntate nella sala Mariangela Melato del Piccolo Teatro (la sentivi ridere e piangere tra noi, Mariangela, ciao) nella giornata finale del MIX Festival di cinema LGBT e Queer culture di Milano a settembre, dove oltre ai registi era presente anche l’attrice Lola Rodriguez che interpreta la coprotagonista Valeria Vegas.

La presentazione (spero esista il filmato) è stata significativa, con la potenza e intensità che riconosciamo alla Spagna, inimmaginabile in Italia. Umili, precisi, onesti e inesorabili “los Javis” e Lola hanno raccontato come scopo centrale della serie era creare empatia. Hanno però anche descritto una storia della Spagna su più decadi attraverso gli occhi di una persona LGBT e non di personaggi eteronormativi.

La sfida è partita per caso a Los Angeles, quando fu chiesto loro di pensare a un biopic con personaggio spagnolo. Ambedue hanno risposto senza troppo pensare: “La Veneno”. Erano amici di Valeria Vegas, giornalista e saggista che stava lavorando alle memorie di Cristina.

Inimmaginabile è stato invece il successo di pubblico raggiunto con ringraziamenti di mezzo pianeta: da RuPaul e Madonna al poliziotto che ferma per strada uno dei registi, riconoscendolo per ringraziarlo o (gli spagnoli sanno essere sorprendenti), a una targa nel parco dove Cristina era prostituta.

Veneno è una sfida della “nuova normalità” da tanti punti di vista. Prima di tutto è stato realizzato durante l’epidemia, con le difficoltà produttive immaginabili e la felicità di poter essere e lavorare comunque insieme, facendo poi il botto a ogni sua uscita sugli schermi.

Secondariamente i registi hanno voluto la presenza di professionisti/e trans in tutti i comparti produttivi durante la realizzazione della serie. Ma, soprattutto, Veneno è una sfida riuscita di comunicazione: non siamo una “nicchia”, amori particolari o bizzarri “di altre sponde”. Siamo VITA.

Amore, difficoltà e dolore sono presentati nella serie con rispetto, attenzione e misura, valorizzando la peculiarità che rendeva il tutto più “rischioso”, quel ricco catarifrangente dell’esperienza umana che è la transessualità.

Veneno è un capolavoro audiovisivo, ma soprattutto una delle più grandi scommesse riuscite degli ultimi decenni. Ben oltre la sessualità, senza mai negarla, per raccontare qualcosa che tutti possiamo capire, criticare, “sentire”. Vedremo se un’opera coraggiosa come questa troverà distribuzione da noi. Precedenti come il doppiaggio di Absolutely Fabulous anni fa non fanno presagire bene. Veneno ha il coraggio e la determinazione che in Italia per ipocrisia o comodità oggi mancano.

La miniserie, infatti, dà esempio in TV di quel che il cinema italiano attuale, “telefonato” e superficiale in imitazione della peggior televisione, non riesce più a fare. Chissà se la serie sarà amata nel paese del “si fa ma non si dice”, del “basta che non si sappia”. Per conto mio, la trasmetterei a reti unificate.

Io sono ormai “non milanese” in quanto mezzo residente spagnolo, e conosco molte persone della comunità LGBT di quella nazione. Ho addirittura partecipato al crowdfunding per la prima edizione del libro di Valeria Vegas ¡Digo! Ni puta ni santa. Las memorias de La Veneno che ha originato il boom.

Quando Pridemagazine.it mi ha detto che se volevo riusciva a organizzare per me un incontro con i registi, malgrado avessi giù pubblicato un articolo su Veneno qualche mese fa, non ho resistito.

Immaginate che emozione per me l’incontro con i registi Javier Calvo e Javier Ambrossi.Le loro risposte sono omogenee, affini, complementari. Avrei potuto non segnalare chi dei due rispondeva. Mi accontento di un semplice “JC” e “JA”.

Il nostro paese, l’Italia, è in Europa la casa della TV commerciale che può diventare TV spazzatura. Questo è un aiuto o una maledizione per le nostre comunità? Vediamo che dalla TV Cristina ha ottenuto fortuna e anche il contrario…

JC: “Capisco bene la domanda e penso che la serie faccia porre domande come questa. Penso a certi programmi TV in Spagna, proprio a Tele5: lì trovo più diversità che in qualsiasi altro canale. Certo le persone non vengono sempre state trattate con la dovuta dignità, e soprattutto nel passato, però è altrettanto certo che nel nostro caso un talk show notturno come Esta noche cruzamos el Mississippi ha dato voce a Cristina e visibilità.

Cristina ha potuto raccontare la sua verità e dire che vendersi e prostituirsi erano per lei l’unica maniera per vivere, che la famiglia non l’aveva voluta con sé, sua madre l’aveva maltrattata… In questa contraddizione risiede una grande opportunità e il suo contrario: come si vede nel quinto episodio, dopo aver pensato di aver trovato nel successo quell’amore che non aveva avuto nell’infanzia e di averlo in sostituito con quello, si è trovata con nulla in mano. Per questo la situazione è pericolosa eppure a qualcosa è servita”.

Dunque la TV o la comunicazione di livello basso non è solo pericolo ma anche aiuto. Voi avete fatto “cinema alto” e cercato di creare empatia trattando un materiale “basso” come la TV di consumo, stereotipi…

JA: “È difficile rispondere: utilizzano le persone eppure danno loro molta voce. Il nostro lavoro era di registi e non di moralisti. Abbiamo visto e abbiamo mostrato questo”.

Ma se TV e anche internet abbassano il livello e amplificano gli stereotipi invece di aprire porte, come Ru Paul’s Drag Race?

JC: “Io non considero Drag Race parte di questa televisione. Lo vedo come espressione artistica, una cosa molto differente. Invece ci sono programmi dove la gente va a vendere la propria vita e, bene, su questo non so cosa rispondere. Resta che in questi programmi appare una maggiore diversità…”.

JA: “È la televisione e anche noi siamo spettatori. A volte ci piace, altre no. È la pura contraddizione”.

Paolo Rumi con “los Javis”

La Spagna profonda come ha reagito al vostro shooting?

JA: “Non abbiamo potuto girare ad Adra, il paese di Cristina, perché è cresciuto ed è cambiato troppo, non aveva senso. Abbiamo potuto invece girare l’infanzia di Cristina a Isleta del Moro, dove tutto è abbastanza ben conservato com’era nel passato ed è stata una esperienza davvero positiva”.

La gente era aperta?

JA: “Sì, la gente ha capito cosa stavamo girando e si è mostrata molto aperta. La situazione è davvero cambiata rispetto alla Spagna dov’è cresciuta Cristina, quella del maltrattamento. Tutto è migliorato grazie all’apertura aiutata dalla TV, dalla cultura, dal cinema, da internet…

JC: “Io vivo in un paesino della Spagna del sud-est, Murcia, e proprio quelle zone mi ispirano per raccontare il cambiamento”

JA: “Sì, erano tutti felici di lavorare con noi, abbiamo verificato un grande cambiamento rispetto a quello che si vede nella serie”.

Ultimo punto è la vostra scelta di presentare i nostri amori come normalità e vita. Avete fatto un capolavoro presentando quelli che comunemente sono pregiudizi, lati oscuri e luoghi comuni con simpatia e umanità. Nell’arcobaleno però tra le varie comunità ci sono anche incomprensioni, rivalità, incomprensione, intolleranza, maschilismo…

JC: “Il nostro scopo è precisamente creare empatia. L’empatia ti fa capire e ti fa aprire al cambiamento. Da quel punto non vedrai più le cose come prima”.

JA: “E dobbiamo essere uniti come comunità. Se abbiamo davanti a noi una guerra continua e totale, perché così sarà, la cosa migliore è essere uniti. E se Paca la Piranha (figura di “sorella maggiore” positiva della serie) diventa un esempio, una figura pubblica, questo ci unisce tutti.”