Nel 1979 una celebre commedia cinematografica denunciò l’ipocrisia del Partito Comunista Italiano sul tema della sessualità. Nel 2023 l’Italia, anche quella di sinistra, stenta ancora a liberarsi degli stereotipi omofobici.

 

Correva l’anno 1979 e il regista e sceneggiatore Steno, con la complicità del figlio Enrico Vanzina e dell’illustre Giorgio Arlorio, scrisse e diresse un capolavoro della commedia all’italiana dal pruriginoso titolo La patata bollente.

Un film leggero solo in superficie, in cui usava il tema dell’omosessualità maschile e della paura che provocava per criticare la patina d’ipocrisia e moralismo della sinistra del tempo, rappresentato dall’oramai defunta fenice del PCI rinata più volte dalle sue ceneri, e che attualmente come Partito Democratico è di nuovo in trasformazione.

A 44 anni dalla sua uscita la pellicola di cui parlerò in seguito è per molti versi ancora attuale. È vero che la società è cambiata, l’Italia è cambiata, così come globalizzazione ed era digitale hanno modificato tutto e tutti: l’economia, la politica, la comunicazione, le nostre abitudini, persino la sessualità.

Ciò che pare non sia cambiato per nulla, e che fa di La patata bollente un’opera profetica, è la distanza, ancora oggi siderale, tra realtà e pensiero collettivo. Come può una democrazia moderna non modellare sé stessa e le proprie regole sulla vita reale? Per decenni si è pensato che il maggior ostacolo a un approccio laico della politica, e dunque a un proficuo intervento del legislatore, fosse la Chiesa, e con essa quella larga fetta di elettorato che mai abdicherebbe alla matrice cattolica delle regole di convivenza civile come, invece, vorrebbe la Costituzione.

Il problema, tuttavia, sembra essere culturale e trasversale. L’ipocrisia degli operai descritti da Steno (un vero comunista doveva essere macho) alberga ancora oggi nella coscienza degli italiani, in larga parte refrattari a sdoganare una normalità inclusiva, al punto tale da diventare strumento di una propaganda divisiva che è paradossalmente riuscita a insinuarsi anche nelle pieghe della comunità arcobaleno.

Perché un disegno di legge contro i crimini d’odio e le discriminazioni come il DDL Zan, così come l’istituto del matrimonio egualitario, o l’adozione da parte delle coppie omogenitoriali, o ancora la procreazione attraverso la gestazione per altri, tutte materie che fotografano istanze urgenti del Paese reale, non trovano ancora una risposta confortante nelle istituzioni? Passi la paura, non si tratta esclusivamente di un conflitto ideologico.

Secondo il Censis oltre il 75% della popolazione italiana usa internet quotidianamente, ed è proprio online, in particolare sui social network, che oggi si forma il pensiero collettivo. La realtà che vogliamo e i valori che perseguiamo dipendono sì dalle esperienze che facciamo, da dove viviamo e da chi incontriamo, però ciò che ci influenza maggiormente sono i modelli mediatici che orientano le nostre vite e le nostre scelte.

Ecco che allora un banale coming out “eccellente”, e come spesso accade nell’ambiente dello spettacolo, tardivo, sarà pianificato ad arte su una TV commerciale per capitalizzare i consensi – e, perché no, monetizzare (!) – seguendo lo schema di una squallida liturgia che prevede la confessione del protagonista, il perdono del pubblico e infine la riabilitazione.

Un esempio può essere quello di Gabriel Garko che si dichiarò gay in diretta TV al Grande Fratello Vip del 2020. L’ultimo, è quello del coiffeur “Federico Fashion Style” sulle reti Mediaset, con Selvaggia Lucarelli che svela che Federico Lauri sarebbe stato in trattativa economica con diversi programmi e conduttori per raccontare la sua storia personale, fino ad approdare con lo “scoop” a Verissimo da Silvia Toffanin.

Prima di lui abbiamo assistito ad analoghe messinscene di cantanti, attori, e persino politici, tutti capaci di vivere (legittimamente) una buona parte della loro esistenza sotto la luce dei riflettori raccontando ben altro di sé.

Sia chiaro, in un mondo ideale la sessualità di chiunque non dovrebbe interessare ad alcuno. Persino quando chi si ostina a dare una rappresentazione fuorviante della propria quotidianità lo fa perché, come si dice, “ha troppo da perdere”.

A farne le spese, tuttavia, è la collettività, e quei e quelle giovani e giovanissimi/e che ancora sono costretti a nascondere orientamento sessuale e/o identità di genere alle proprie famiglie, ai compagni di scuola, alla società tutta, talvolta trovando sfogo esclusivamente nell’anonimato online o, peggio ancora, individuando come unica via di fuga la separazione netta tra eros e socialità.

Curiosa, a proposito di esecrabili esempi di quel funambolico esercizio del “politicamente corretto” che non fa bene al Paese, è la recente sortita del maestro della moda Giorgio Armani, che in occasione della Milano Fashion Week maschile Autunno/Inverno 2023-24 ha deciso di concludere l’applauditissima passerella facendo sfilare alcune coppie rigorosamente formate da un uomo e una donna.

La cosa di per sé non avrebbe provocato alcuna indignazione se durante la conferenza stampa il celebre stilista non l’avesse raccontata puntualizzando che si è trattato di “una scelta precisa”, perché “si parla di un uomo e di una donna che si vogliono bene, che si amano. Facciamo vedere questa realtà che piace a tutti. Poi ci sono le trasgressioni, le varianti, le modernità. Vanno bene, non dico nulla naturalmente, ma mi piaceva rivedere una coppia carina”.

Non è certo questa la sede per un’esegesi delle parole di Re Giorgio, per quanto innegabilmente pregne di odiosi stereotipi omofobici. In fondo in un’intervista a The Sunday Times aveva già detto che “Un uomo omosessuale è uomo al 100%. Non ha bisogno di vestirsi da omosessuale”.

Prima di concludere torniamo al 1979. Al Quirinale c’era Sandro Pertini e l’Italia, già piegata dagli anni di piombo, attraversava una grave crisi economica e produttiva causata dall’impennata del prezzo del petrolio conseguente alla rivoluzione in Iran.

La politica, profondamente scossa dall’assassinio di Aldo Moro a Roma e da quello del sindacalista della CGIL Guido Rossa a Genova, registrava una nuova vittoria della DC sul Partito Comunista, grazie all’appoggio dei socialisti con cui formò un’alleanza di centro che presto si cristallizzò nel famigerato Pentapartito.

Il Paese si avviava a una nuova stagione e una parte della società civile, le cui richieste erano raccolte e rappresentate dai Radicali di Marco Pannella, si apprestava a lottare per l’abrogazione delle norme giuridiche di matrice fascista e a rivendicare diritti “individuali” fino ad allora mai riconosciuti come il diritto all’aborto, all’uso di anticoncezionali, al divorzio, all’informazione sessuale, alla non obbligatorietà del servizio militare cosiddetto “di leva”, al consumo di droghe leggere e alla libertà di amare qualcuno dello stesso sesso.

Nella pellicola Bernardo Mambelli (interpretato da Renato Pozzetto), per gli amici Il Gandi, fa l’operaio in una fabbrica di vernici. L’uomo vive in un condominio popolare “presidiato” dalla portiera alcolizzata e impicciona Elvira. È un fervente attivista sindacale fedele al Partito Comunista Italiano, ha il pallino della boxe ed è innamorato della bella e voluttuosa fidanzata Maria (Edwige Fenech), addetta alla mensa aziendale.

La sua vita cambia radicalmente una notte, quando passeggiando per strada assiste all’aggressione di Claudio (Massimo Ranieri) da parte di un gruppo di fascisti. Il Gandi salva il giovanotto dalla banda di facinorosi, e vedendolo ferito e piuttosto scosso, lo porta a casa con sé, ignaro che sia omosessuale.

Se ne accorgerà presto e, segno dei tempi, ciò lo costringerà a mettere in atto una serie di ridicoli quanto disastrosi stratagemmi per sottrarlo agli occhi indiscreti della portiera e nasconderlo alla fidanzata e ai colleghi, tutti comunisti come lui e progressisti solo in apparenza.

La storia si complica quando i fascisti tornano all’attacco e incendiano la libreria gay in cui lavora Claudio, che rimasto anche senza casa torna a rifugiarsi nell’abitazione del Gandi. Maria se ne accorge e preoccupata che il fidanzato sia diventato omosessuale spiffera tutto a Walter, il suo migliore amico.

L’apprensione è tale (si sparge la voce che “il Gandi è un culo”) che il partito corre ai ripari organizzando un viaggio premio nella sua amata Unione Sovietica, affinché “guarisca” dalla presunta sbandata omosex. Intanto, Claudio cerca di sdebitarsi dell’ospitalità riarredando l’appartamento del suo ospite e trasformandolo in un’alcova oltre i confini del kitsch.

Al ritorno dall’URSS il Gandi affronta coraggiosamente l’ipocrisia dei colleghi di lavoro e di partito nei confronti della libertà sessuale e, dopo aver sfidato la loro morale cimentandosi in un irresistibile tango con Claudio alla Festa dell’Unità, li affronta apertamente accusandoli di esser vittime di pregiudizi che un vero comunista non dovrebbe avere.

Vedendo l’uomo che l’ha aiutato e difeso, e del quale nel frattempo si è infatuato, Claudio decide di fargli credere di essere ostile al comunismo e si toglie di mezzo. La farsa finisce il giorno delle nozze di Maria con Il Gandi, quando lui legge ad amici e colleghi la lettera in cui Claudio gli confessa la verità sulla decisione di andarsene.

Seguirà il viaggio di nozze ad Amsterdam, dove Claudio vive e lavora felicemente insieme con l’uomo che, nella più evoluta Olanda, ha potuto sposare (nella realtà il matrimonio tra persone dello stesso sesso sarà sancito nei Paesi Bassi solo nel 2001).

Un po’ come i compagni di partito del Gandi quello che mi stupisce e amareggia è stato osservare sui social network la reazione di parte della comunità LGBT+ alle esternazioni di Giorgio Armani. La riluttanza a considerarle inaccettabili e irrispettose è una perfetta dimostrazione del fatto che nel nostro Bel Paese la patata continua a scottare e si palleggia come una bomba che nessuno vuole che esploda tra le proprie mani.