Tre storie ambientate in epoche diverse approdano sulla scena affrontando gli eterni e spinosi temi della passione, del rifiuto da parte di chi si ama, i nodi e i segreti celati nell’ambito della famiglia, la gelosia e la cieca violenza. Ne abbiamo parlano con gli stessi artisti.

 

Di Juan Carlos Rubio, drammaturgo, sceneggiatore e regista spagnolo, ricordavamo il recente Arizona, una pièce che affonda la lama sul tema del razzismo e della violenza nell’America di oggi. Lo ritroviamo autore di Le ferite del cuore, un bel testo che racconta e approfondisce con sensibilità e ricchezza di sfumature un incontro/scontro tra un anziano e un giovane uomo, destinato a segnare una tappa significativa nelle loro vite, ma anche a mettere in discussione le etichette di padre, figlio e amante.

Per primo conosciamo il mite Giovanni nel suo confortevole appartamento da single. Rimasto solo dopo la morte della sorella, intesse un immaginario dialogo con un gatto che gli fa compagnia in cambio di cibo e attenzioni. In modo speculare, sulla scena vediamo Davide che sta svuotando e mettendo ordine nella casa del padre Raffaele, da poco mancato. Quando trova chiuso il cassetto di una scrivania senza recuperarne la chiave, decide di scassinarlo e, con enorme sorpresa, scopre una serie d’infuocate lettere d’amore indirizzate al padre da parte di un uomo.

Del tutto comprensibile il suo sbigottimento, dato che mai avrebbe immaginato che il virile e integerrimo genitore potesse essere bisessuale e aver condotto per anni una doppia vita. Col suo carattere impulsivo e irruente decide di scoprire chi sia il misterioso amante e se quella passione fosse corrisposta, e riesce ad arrivare a Giovanni. A causa dei suoi toni aspri e inquisitori, il primo impatto tra loro si rivela disastroso. Andrà meglio nei successivi due appuntamenti in cui il giovane man mano si ammorbidisce e comincia a rispettare la persona e le scelte sessuali dell’altro che risponde all’aggressività con ironia e pacatezza.

Tra loro è simbolicamente presente l’enigmatica figura di Raffaele, pirandellianamente vissuto da un lato come padre e dall’altro come amante. Le tensioni si sciolgono e Davide pian piano mette a parte Giovanni delle sue fragilità, le difficoltà nella sfera affettiva e nei rapporti con le donne, ricevendo consigli su come gestire al meglio la relazione con la fidanzata. È però nell’ultimo loro incontro che avviene il colpo di scena e la rivelazione sulla natura dell’amore tra i due uomini. A scoprire e mettere in scena la scorsa stagione Le ferite del cuore è stato il regista Alessio Pizzech che si divide con successo tra prosa e lirica.

“Il testo di Rubio ci dice che abbiamo la necessità, prima di amare un altro essere umano, di amare noi stessi e di riconciliarci con l’eredità ricevuta dai nostri padri e madri anche non volendola e non cercandola. Nella società che verrà dopo di noi” continua Pizzech “maschile e femminile dovranno rigenerarsi in valori che mettano sempre al centro l’uomo e la straordinaria possibilità dell’ascolto. Ci sono ferite che non vediamo dentro di noi, ma che costantemente attraversano il vento e il respiro dell’amata/o, ne sentiamo il suono e ne abbiamo paura, invece non dovremmo mai aver timore di farci attraversare dall’amore.

Amo questa pièce perché attraverso il tema dell’omosessualità chiede agli interpreti e a me di percepire la dimensione adulta anche nella solitudine. Il finale rimane aperto ed è una delle ragioni per cui l’ho scelta: non voglio prendere una posizione ma voglio raccontare che l’amore è una cosa complessa, sia quello tra padri e figli o quello tra due uomini o tra due donne. Riprenderla ora mi spaventa ma auspico e spero, come accaduto lo scorso anno, che il pubblico si lasci attraversare da questa storia che parla di noi.”

La sua attenta regia ha dato il giusto peso ai serrati dialoghi, valorizzando però anche i silenzi, gli sguardi e i sorrisi, lasciando talvolta i due co-protagonisti agire in contemporanea sulla scena. Per il ruolo di Giovanni, Pizzech ha voluto Cochi Ponzoni e ci fa molto piacere rivederlo a teatro. Al suo personaggio ha saputo offrire leggerezza, ironico distacco e giusta malinconia; Davide è Matteo Taranto che con la sua intrigante fisicità e impulsività disegna assai bene i turbamenti e le fragilità di un figlio forse mai compreso appieno.

Dopo il passaggio all’Elfo Puccini di Milano lo scorso febbraio, la ripresa inizia il 25 e 26/2 al Comunale di Fauglia (PI) e al Concordi di Campiglia Marittima (LI); poi tra le tappe della tournée in marzo e aprile segnaliamo quella al Masini di Faenza (2/3), Comunale di Cervia (3-5/3), Nestor di Frosinone (7/3), Sala Umberto di Roma (16-19/3), Sociale di Brescia (22-26/3), Sperimentale di Pesaro (20-23/4).

Un paio d’anni fa ha suscitato un certo scalpore negli ambienti letterari la teoria degli studiosi Paul Edmonds e Stanley Wells secondo la quale Shakespeare fosse palesemente bisessuale e che ben 126 dei 154 suoi sonetti sono attraversati dall’amore omossessuale. Un dato di fatto è che alla pubblicazione nel 1593 l’editore ne soppresse 8 e modificò i pronomi, trasformando gli “he” in “she”, operando quindi una sorta di “eterosessualizzazione” dell’opera. Rimane comunque trasparente l’ambiguità del sonetto 20 col celebre verso “Mister Mastress of My Passion”.

Un altro indizio che potrebbe avvalorare quest’ardita tesi è costituito dal poemetto pastorale Venus and Adonis, forse la sua opera prima, pubblicato nel 1593 durante l’epidemia di peste nera che afflisse parte dell’Europa. Composto da 99 + 99 sestine + 1 posta al centro come punto di convergenza, è noto il mito che ne costituisce la trama: la dea dell’amore, punta involontariamente da una delle frecce di Cupido, s’invaghisce del bellissimo giovinetto Adone, che, nato dalla corteccia dell’incestuosa madre Mirra, per punizione trasformata dagli dei in albero, è stato cresciuto dalle Naiadi.

Lui però rifiuta le sue insistenti avances, preferendole i piaceri della caccia. Venere tenta di metterlo in guardia dai pericoli provenienti dalle bestie feroci, però rimane inascoltata. Durante una battuta Adone viene assalito da un cinghiale che prima aveva catturato e ne viene ucciso, e sul luogo dove il suo sangue si è versato la dea farà crescere dei profumati anemoni. È legittimo ipotizzare che Venere sia un alter ego dell’autore e che l’innamorato della giovinezza e della bellezza di Adone sia proprio Shakespeare: i versi sembrano lasciar emergere un dato biografico che racconta un’esperienza personale.

Di Venere e Adone ricordiamo la messa in scena del 2009 di Valter Malosti, regista e interprete nelle vesti di narratore e in quelle della dea, che ne enfatizzava il desiderio sessuale, quasi macchina di passione e simbolo dell’amore rifiutato. A proporre ora un’originale versione del poemetto è Danilo Giuva, attore e regista, formatosi nell’ambito del Teatro Kismet di Bari e all’Odin Teatret di Eugenio Barba in Danimarca.

Ha fatto seguito l’incontro importante e fruttuoso con Licia Lanera e l’ingresso nel 2014 nella sua compagnia, dove, diretto da lei, nel 2020 è in Guarda come nevica – I sentimenti del maiale. Dopo Mamma di Annibale Ruccello, con Venere/Adone firma la sua seconda regia nella quale ha inteso mettere in luce le difficoltà dell’esperienza amorosa, la questione identitaria e l’articolata relazione tra amore, desiderio, forma e natura, intrecciando la vicenda originale con quella autobiografica che lo ha visto anni fa coinvolto in una situazione simile. Gli abbiamo chiesto qualche riflessione su questo lavoro.

“Ho messo la barra obliqua nel titolo, perché sono convinto che entrambi convivano in ognuno di noi e sono partito dall’archetipo dell’amore incompiuto celebrato dal Bardo per poi lanciarmi da quelle altezze per precipitare in una storia d’amore, altrettanto incompiuta, tra due comunissimi esseri dello stesso sesso. Ho voluto raccontare il circuito tutto personale dei primi momenti, la ricerca della verità, la difficoltà di spiegarsi, la fatica della lotta interna, il senso d’incompiutezza e il dolore che il desiderio inespresso genera. Le questioni amorose hanno dirottato la mia esistenza sin dall’adolescenza e l’incontro con Shakespeare è stato un’epifania per portare sul palco il mio tormento.

Quando per la prima volta ho letto Venere e Adone ho pianto: su di me l’effetto di quei versi è stato deflagrante e ha dato voce a un dolore, sebbene ormai risolto, che ha segnato profondamente la mia vita e il modo in cui ho costruito le successive relazioni d’amore. I passaggi emotivi sono stati gli stessi e ho dato forma a una cronologia del mio vissuto cercando un parallelismo con le parole di Adone.”

Danilo racconta, infatti, di un amore nato sin dall’adolescenza – e corrisposto – con un ragazzo che non accettava però la sua omosessualità e, come tanti altri al Sud e al Nord, decise dopo anni di sposare una fidanzata, causandogli un enorme dolore. La passione e l’attrazione non si erano però sopite, e dopo averlo ricercato e di nuovo amato, gli propose di fuggire insieme lontano, non volendo palesare a nessuno la sua vera identità. Messo davanti a una scelta terribile, Danilo, pur sapendo di perderlo per sempre e immaginarlo poi dedito a furtive avventure, rifiutò.

Nello spettacolo, di cui Giuva firma con Annalisa Calice anche la drammaturgia, l’attore racconta in un avvincente monologo quest’esperienza di vita, anche ballando e spostando gli oggetti in scena, circondato da suggestive immagini d’arte, dalle luci a led e con le suggestioni canore dei Coma Cose in Fiamme negli occhi e dei Sigur Ròs in All Alright. Al termine c’è un partecipe approfondimento con gli spettatori, spesso molto giovani o studenti, nell’età in cui si confrontano con le dinamiche del corpo e del desiderio.

“In realtà i giovani sono più interessati alla relazione tossica” precisa Danilo “più che al genere dei due protagonisti. Io penso che loro abbiano ampiamente sdoganato la questione sessuale che infatti non è volutamente al centro del mio lavoro. Parlo d’amore e il genere non è importante né per me né per loro. Diverso è il discorso con gli adulti: quelli omofobi restano omofobi, quelli non omofobi si identificano e si godono il racconto.” Abbiamo visto e apprezzato Venere/Adone al teatro Fontana di Milano e confidiamo di saperlo presto in tournée.

Forse i cinefili o gli spettatori molto anziani ricordano ancora il bel volto dell’attore romano Ermanno Randi, prima ballerino nelle riviste con Anna Magnani e Nino Taranto e in seguito sullo schermo nelle vesti di attore in ruoli minori accanto a colleghi poi diventati celebri come Vittorio Gassman, Gina Lollobrigida e Marcello Mastroianni.

Al pari di molti omossessuali romani, all’inizio degli anni cinquanta frequentava i luoghi di battuage sulle sponde del Tevere dove avvenivano incontri al riparo da occhi indiscreti e si consumavano fugaci rapporti sessuali. Succedeva però d’incontrare anche l’amore ed è quello che capitò a Ermanno nella persona di Giuseppe Maggiore. Nacque una tumultuosa relazione durata due anni con il partner che, nonostante la convivenza, era ossessionato dalla gelosia e dalle possibili occasioni che il compagno potesse trovare sul lavoro a Cinecittà.

Ipotizzando che Ermanno, ormai disamorato, avesse intenzione di lasciarlo, un giorno gli sparò causandone la morte a soli 31 anni e ferendosi poi lui stesso nel goffo tentativo di uccidersi. Abbiamo testimonianza di come i giornali dell’epoca trattassero il fatto di cronaca nera che vedeva al centro l’ambiente dei cosiddetti “invertiti” o “anormali”, termini orrendi con cui venivano stigmatizzati i gay, usando un linguaggio pregno di denigrazione, scherno e violenza.

A questa vicenda si è ispirato il giovane drammaturgo Emiliano Metalli per Scomodi e sconvenienti, cambiando solo il nome dell’attore in Armando e conservando quello di Giuseppe ma aggiungendo un personaggio di fantasia, il sarto che si fa chiamare Ida e “cuce” la loro storia, simboleggiata da un abito da sera femminile mai terminato, una sorta di tela di Penelope

“Per la stampa si trattò solo di un torbido omicidio che destava interesse per l’oscenità dell’argomento” afferma l’autore “ma che bisognava nascondere agli occhi della folla. D’altronde il principio della Democrazia Cristiana era impostato sul silenzio: se di qualcosa non si parla non esiste. Così Ermanno fu dimenticato e tale rimase negli anni successivi, troppo impegnati nelle rivendicazioni politiche prima e nella lotta contro lo stigma procurato dall’epidemia di AIDS poi. Ma questa storia non deve rimanere sepolta perché è sempre attuale. Ancora oggi siamo scomodi e sconvenienti quando decidiamo di vivere a modo nostro e non secondo alcune regole sociali. Chi ne resta fuori è un resistente che può cadere sotto i colpi della depressione, dell’isolamento o peggio della violenza omofoba. Per questo attraverso i tre personaggi noi ricordiamo le vite di tutte le persone che affrontano ogni giorno le loro difficoltà, siano essi vittime o carnefici.”

Ida ci fa assistere al primo incontro casuale quando i due sono in attesa di un provino, Giuseppe aveva infatti aveva velleità di cantante lirico. Scatta subito una forte attrazione che sfocia in amore sincero e nel desiderio di andare a vivere insieme. Mai iniziata la carriera di cantante, per non gravare economicamente sul compagno, Giuseppe decide di emigrare in Argentina in cerca di una fortuna che non arriverà. Armando, sempre innamorato, lo supplica di tornare e l’altro lo accontenta. Dopo alcuni mesi la convivenza, a causa della gelosia paranoica di Giuseppe, diventa impossibile e durante una scenata la situazione precipita con l’assassinio di Armando.

Nella realtà quest’ultimo, benché moribondo, riuscì a trascinarsi in strada per chiedere soccorso anche per Giuseppe il quale poi in tribunale invocò la scappatoia del delitto passionale (di cui tante donne furono vittime prima della sua abrogazione, lasciando i loro assassini quasi impuniti), scontando pochi anni di prigione.

Come si è detto, la storia viene in parte narrata da Ida, intenta nel suo lavoro, e in parte agita dai due co-protagonisti. Orazio Rotolo Schifone, che in scena è un Armando dai diversi registri, prima amante appassionato, poi compagno paziente e infine partner esacerbato, firma anche la regia che necessita di qualche assestamento, al fine di una maggiore omogeneità tra gli attori e nelle tempistiche dell’azione. Giuseppe Benvegna dà a Giuseppe la giusta misura di passione, malessere e obnubilamento. Francesco Serpico (che nella fiction TV L’amica geniale era il seduttivo Nino Sarratore) sconta qui il fatto di essere subentrato nel ruolo del titolare Francesco Di Raimondo e denuncia qualche carenza nell’estensione della voce. L’abito scultura è di Simone Natali. Scomodi e sconvenienti, dopo le repliche all’Ecoteatro di Milano, sarà al teatro Lo Spazio di Roma dal 19 al 21 aprile.