Performer transessuali e travestiti sono i protagonisti di uno spettacolo cult che dopo dieci anni torna in scena, con loro ormai anziani, ma dal magnetismo immutato. In un altro lavoro una donna si appresta ad affrontare la transizione e la sua esperienza intreccia anche memoria storica e identità politica.

foto da “Gardenia” di Luk Monsaert

 

Dopo il debutto nel 2010 al Teatro NT di Gand, le oltre 200 repliche in un tour mondiale e la nomination nel 2012 ai British Olivier Awards, dieci anni dopo sono ritornate. Parliamo delle drag queen di Gardenia, lo spettacolo, firmato dal regista Frank Van Laecke, dal coreografo Alain Platel (fondatore nel 1984 della celebre compagnia di danza contemporanea Les Ballet C de la B) e dal compositore Steven Prengels, però nato da un’idea di Vanessa Van Durme, attrice transgender belga con un ruolo di rilievo nell’affermazione dei diritti e per combattere i pregiudizi nei confronti delle persone LGBT, è stato rimontato e torna in scena col titolo Gardenia-10 Years Later. Van Durme si è ispirata al film spagnolo Yo Soy Asì di Sonia Herman Dolz, dove la chiusura di un cabaret di drag queen a Barcellona dà l’opportunità di scandagliare le vite private di un gruppo di artisti diventati anziani.

“Riprendiamo Gardenia – afferma Platel – perché ci è stato richiesto dagli stessi interpreti. Allo stesso tempo per me e per Frank era interessante vedere come un lavoro così concepito dieci anni fa, potesse sopravvivere in un mondo nel quale la questione del gender è diventata molto attuale e il cambio di sesso è un tema assai discusso. Durante l’anno di tour di questa ripresa ho avuto l’impressione che lo spettacolo nel 2010 abbia contribuito a provocare e aprire un dibattito su questi temi. Oggi credo che la situazione sia più statica e ci si guardi indietro, rievocando le lotte passate e i testimoni di queste battaglie.

La sfida è capire se questi personaggi possono ancora raccontare la loro vera storia oggi. Invecchiati in modo evidente (gli interpreti hanno tra i 60 e i 70 anni e il più anziano 78), in scena producono un impatto che ha una forza incredibile. Nel corso della creazione erano presenti giovani attori che hanno seguito il processo artistico e ci hanno detto che per loro è stato toccante vedere questa generazione di persone che hanno debuttato negli anni Settanta raccontare oggi la loro storia.”

Veri travestiti e transessuali, ora sono rimasti in otto, dopo che Andrea de Laet è mancato e hanno deciso di non sostituirlo; a lui è dedicato un minuto di silenzio all’inizio dello show. Subito dopo li vediamo, con tutti gli impietosi segni della terza età, avanzare lentamente in proscenio e in sottofondo le note di Over the Rainbow. In abiti maschili si presentano al pubblico con i loro nomi da drag queen, sottolineati da maliziosi accenni alle passate specificità erotiche di ciascuna nel sedurre gli uomini.

Sotto giacche e cravatte – da cui poi si liberano armoniosamente – ci sono però sottovesti sottili e con i corpi esposti senza imbarazo vanno a formare una serie di tableux vivants mentre scorrono le arie della Traviata, del Bolero di Ravel e gli Alphaville cantano Forever Young.

A seguire ci sono degli intermezzi comici con le fasi del corteggiamento e le espressioni spesso stereotipate con cui manifestiamo i nostri sentimenti e passioni, ma il registro cambia repentinamente e assistiamo alle drammatiche dinamiche dell’attrazione/repulsione e dal lasciarsi per poi riprendersi di cui tante storie d’amore sono costellate, ascoltando Dalida che si alterna a Schubert.

Gran finale con tutte che indossano i sontuosi abiti di scena, e chi diventa Liza Minnelli, chi Judy Garland o Carmen Miranda e chi Marlene Dietrich, avvolta nel suo mantello di zibellino, la cui voce prorompe in Where Have All The Flowers Gone? Il congedo è, come all’inizio, con Over The Rainbow. Platel e Van Laecke in questa ripresa hanno deciso di inserire materiali tratti dal docufilm del 2014 Before The Last Curtain Falls del canadese Thomas Wallner con gli stessi interpreti che raccontano le loro vicende private e intime. Ricorderemo Gardenia non come una mera esibizione en travesti o come un malinconico viale del tramonto, bensì come un collage della fluidità di genere, delle gioie e dei dolori dell’invecchiamento e del potere trasformativo dell’arte.

Alla vigilia dell’importante anniversario del 50° anno dalla nascita del Teatro Franco Parenti, la direttrice Andrée Ruth Shammah, in collaborazione con la Fondazione Ravasi Garzanti, impegnata nel migliorare le condizioni di vita delle persone anziane, ha scelto questo spettacolo per aprire la rassegna La Grande Età, con l’invito a chiamarla così e non più “terza età”.

Ospitato dal Piccolo Teatro sul capiente palcoscenico dello Strehler, lo show ha visto in scena i teneri e autoironici Vanessa Van Durme, Griet Debacker, Richard “Tootsie” Dierick, Danilo Provolo, Gerrit Becker, Dirk Van Vaerenbergh, Rudy Suwyns e l’aitante Hendrick Lebon, l’unico del cast anagraficamente giovane. Dopo il festeggiato passaggio milanese, Gardenia-10 Years Later sarà al teatro Ariosto di Reggio Emilia il 15 e 16 ottobre nell’ambito del Festival Aperto.

“Trasgressivo, dissacrante, divertente”. Questo il commento del New Yorker all’uscita di Un cazzo ebreo della giovane scrittrice tedesca Katharina Volckmer (pubblicato nel 2021 da La Nave di Teseo con la traduzione di Chiara Spaziani). Non tragga in inganno il titolo, perché non si tratta di una vicenda a luci rosse in cui al centro troviamo un fallo, bensì di un trascinante “stream of consciousness” molto simile a quello di Molly Bloom nell’Ulisse di Joyce, che la protagonista riversa su di un muto interlocutore, forse uno psicoanalista o un chirurgo che si appresta a una difficile operazione.

Il testo ha affascinato il regista Fabio Cherstich (già uso a sfide complesse, come quella nei confronti di Alessandro Jodorowsky per Opera panica – Cabaret, nelle quali convergono spesso la sua passione per il design e i linguaggi artistici contemporanei) che, con la collaborazione della stessa autrice, ne ha realizzato un adattamento teatrale dal titolo L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo, prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano dove rimane in scena sino al 16 ottobre.

Fabio Cherstich e Katharina Volckmer – foto Noemi Ardesi

“Già alla prima lettura ne sono rimasto folgorato: la trama viaggia sui binari del tema del gender, dell’identità del corpo in transizione, dell’amore e del sesso, ma parla anche di memoria e identità politica. È una scrittura che si pone nel solco della grande letteratura germanica, cinica e ironica. Per renderla ho pensato di costruire una performance con molto spazio per le immagini e le arti visive. Ho collocato i due personaggi all’interno di uno spazio mentale: non lo studio di un medico, ma un dispositivo visivo in cui attraverso l’uso di lenti traslucide, vetri opalescenti, filtri fotografici, il corpo della protagonista e la sua immagine appaiono al pubblico in una forma mutevole e continuamente trasformabile, fluida e misteriosa.”

Dalla pièce non bisogna aspettarsi una progressione o trama consequenziale, bensì ci si deve lasciar trasportare dal flusso verbale del personaggio, tuttavia si possono ravvisare due tematiche: la prima è quella che i tedeschi chiamano Vergangenheitsbewaltigung (superamento del passato) ossia l’elaborazione del senso di colpa da parte delle nuove generazioni per i crimini commessi dai nazisti.

A questo proposito la donna cita il ricordo di quando, bambina a scuola, era costretta a cantare in ebraico pur se in classe non c’erano compagni ebrei, giusto per dimostrare di essere stati “denazistificati”, puntualizzando “non siamo però mai stati in lutto, semmai ci comportavamo assecondando una nuova versione di noi stessi, istericamente e superficialmente non razzisti in ogni circostanza e pronti a negare qualsiasi differenza, eppure non abbiamo restituito agli ebrei lo status di esseri umani.”

foto Luca del Pia

Il secondo tema è quello delle fantasie sessuali (come il racconto del sogno fatto nel quale consumava un amplesso con Hitler) soprattutto incentrate sul fortissimo desiderio di possedere un pene, vissuto come simbolo di potere e di piacere. Ci mette a parte delle sue incursioni nei bagni pubblici degli uomini, dove soddisfa anche più volte i loro desideri e la vediamo sfogliare riviste di nudo maschile con modelli superdotati.

Questa prepotente spinta verso la mascolinità ha di certo inficiato l’unica relazione che lei menziona, quella con K, uomo troppo fragile e sensibile, facile al pianto, quindi troppo lontano dall’ideale di maschio da lei agognato. Le due tematiche diventano interdipendenti: la messa in discussione della cultura tedesca (non è un caso che Volckmer scriva in inglese) si associa alla messa in discussione del proprio genere, dell’essere nata femmina.

Quello a cui assistiamo è un processo distruzione del sé che vuole anche sottolineare senza ambiguità la complessità e la fluidità del nostro essere, oltre alla riconsiderazione degli stereotipi sul genere, sul sesso, sull’identità religiosa e quella individuale, dove ogni cosa è passibile di essere messa in crisi. Con queste premesse alla fine non ci sorprende poi troppo la decisione della donna di cambiare sesso e, come primo passo, di sottoporsi all’operazione, simbolizzata dal medico che, alzatosi dalla sedia, s’infila i guanti da chirurgo.

foto Luca del Pia

Per affrontare un monologo tanto arduo quanto scabroso è necessaria una gran prova d’attrice ed è proprio quella offerta da Marta Pizzigallo che, alternando al microfono vari registri vocali e usando mirabilmente il corpo (fasciato in una guepiere color carne con uno squarcio in corrispondenza della vagina) a cominciare dal viso oltraggiato dai baffetti hitleriani e poi dagli arti in continuo, febbrile, spasmodico movimento, sino al finale quando, distesa immobile su una panca-lettino operatorio, va incontro a un problematico futuro comunque sempre all’insegna del suo credo: “Per capirti hai bisogno di un corpo da amare, altro che di un’anima!”

Accanto a lei, nei panni del silente chirurgo-analista dottor Seligman, siede Riccardo Centimeri, senza dimenticare l’originale e accattivante impianto visivo firmato dallo stesso regista, animato dal vivo da Francesco Maisetti. Molte le sensazioni ed emozioni confermate dai lunghi applausi del pubblico.