Nell’incantevole scenario di Capodimonte, il Campaniateatrofestival ci ha regalato molte interessanti visioni LGBT. Siamo stati testimoni della storia impossibile tra Lorca e Dalí, la rivolta delle quattro giornate di Napoli con gli amori tra femmeniélli e partigiani, il pessimismo di Enzo Moscato, ma ci aspettano altre sorprese e star internazionali.

immagine di apertura da “La Resistenza Negata”, ph. Sabrina Cirillo ag. Cubo

 

Non più solo “Napoliteatrofestival” ma “Campaniateatrofestival”: nuova denominazione per indicare l’espandersi in regione di quello che è diventato uno dei più rilevanti appuntamenti del panorama teatrale estivo con un intero mese (dal 12 giugno all’11 luglio) di intensa programmazione.

Nuovi spazi decentrati dunque: da Salerno a Pompei, Caserta, Pietrelcina e Montesarchio, anche se il fulcro dell’articolata kermesse quest’anno ha avuto luogo nei meravigliosi spazi all’aperto di Capodimonte, dove nei lussureggianti giardini sono stati allestiti i palcoscenici. Sempre numerose le sezioni: teatro (sia nazionale che internazionale), danza, musica, letteratura, cinema, mostre e osservatorio, quest’ultima sempre legata al teatro ma dedicata a spettacoli legati alla sperimentazione oltre all’intento di dare visibilità a giovani compagnie.

Davvero significativi i numeri della rassegna: 448 artisti presenti, 420 eventi, 15.000 spettatori, 73 debutti assoluti, 14 palchi, 1.500 lavoratori occupati, 149 strumenti musicali, 5.248.000 visualizzazioni social e… 1.200 minuti di applausi. “È un festival – afferma il direttore artistico Ruggero Cappuccio, al suo terzo mandato – che sostiene le forze creative della regione intera e la pone in dialogo con le più affascinanti esperienze internazionali. Napoli, almeno nelle forme dell’arte, rilancia il desiderio e il piacere e decreta l’irraggiungibilità della bellezza”.           

Un progetto speciale ideato da Cappuccio e a cura di Marco Perrillo è stato Il sogno reale. I Borbone di Napoli, un focus su un periodo storico senza precedenti, i cui fasti e primati, a Napoli e nel resto del sud Italia, incantano ancor oggi. Sette scrittori (Emanuele Trevi, Wanda Marasco, Elisabetta Rasy, Silvio Perrella, Viola Ardone, Pierluigi Arzano e lo stesso Perrillo) hanno creato sette racconti ispirati a personaggi, storie, aneddoti e luoghi relativi all’epoca borbonica che sono stati interpretati da Claudio Di Palma, Alessandro Preziosi, Lina Sastri, Euridice Axen, Alessio Boni, Iaia Forte e Sonia Bergamasco nella splendida reggia di Capodimonte.

Limitiamo, anche per ragioni di spazio, la nostra cronaca focalizzandoci sugli spettacoli teatrali, in particolare quelli in cui è riconoscibile una chiara tematica LGBT o la si ravvisa tra le pieghe delle scritture o nel percorso artistico degli autori. Ha aperto il festival La resistenza negata, scritto e diretto da Fortunato Calvino (vincitore del Premio Carlo Annoni 2020) di cui abbiamo visto in anteprima la mise-en-espace nell’ultima edizione del festival Lecite Visioni al teatro Filodrammatici di Milano lo scorso maggio.

La Resistenza Negata

Nelle cruente 4 giornate di Napoli tra il 27 settembre e il 1° ottobre 1943 (in realtà la sollevazione popolare si sviluppò durante tutto il mese di settembre) uomini, donne, civili e militari, di ogni ceto sociale e quartiere scesero nelle strade e nelle piazze per liberare la città, già provata dai continui bombardamenti degli alleati e dalla brutalità dell’occupazione tedesca.

Come spesso accade per molte pagine della Storia, i libri sull’argomento non menzionano il contributo offerto dai femmenièlli ai moti di rivolta. Calvino, dopo approfondite ricerche, solleva il velo su queste colpevoli omissioni, partendo delle memorie del partigiano e testimone Antonio Amoretti legate all’insurrezione popolare. Di fantasia è invece il personaggio del giovane, aitante e volitivo Arcangelo che, impegnato nella lotta a fianco della madre, ricambia l’amore clandestino di Maria Sole, da sempre invaghito di lui ma destinato a una fine tragica, suscitando l’insopprimibile gelosia della rivale “Cecata”. Alcuni di loro, impavidi sulle barricate costruite con materiali di fortuna, pagheranno un doloroso tributo di sangue ma sarà quello il prezzo della riacquistata libertà.

“Ho voluto far emergere dal cono d’ombra – ci ha detto l’autore – il ruolo che ebbero le donne e i femmenièlli nella battaglia, pagando spesso con la vita dopo che Hitler aveva ordinato ai suoi comandanti di bruciare e radere al suolo la città. Il mio racconto teatrale si svolge proprio in quel ‘terraneo’ di cui parla Amoretti.”     

Da lodare tutti i generosi e intensi interpreti, prima tra tutti Antonella Cioli, poi Luigi Credentino, Gregorio De Paola, Rossella Di Lucca, Carlo Di Maio, Mirko Ciccariello, Ivana Maione e Ivano Schiavi. Essenziali le scene di Gilda Cerullo e corretti i costumi di Annamaria Morello, di forte impatto le musiche di Enzo Gragnaniello.

La rosa del mio giardino

Sulla presunta relazione amorosa tra Federico García Lorca e Salvador Dalí molto si è scritto e ipotizzato: di certo il poeta e il pittore avevano stretto una profonda amicizia, nata non appena Dalí nel 1923 era approdato, aspetto singolare e aria trasognata, alla Residencia de Estudiantes, il prestigioso collegio di Madrid che ospitava i rampolli delle classi agiate. Sugli sviluppi di questo legame giovanile, Claudio Finelli ha costruito un testo dalle forti risonanze letterarie, La rosa del mio giardino, messo in scena da Mario Gerardi. “Abbiamo voluto lasciare inalterata la separazione anche a livello fisico tra i due artisti – precisa il regista – mai diventato vero amore così come agognato da Lorca.”

Partendo da quaranta lettere ritrovate, scritte da Salvador a Federico e solo dalle sette vergate dal secondo (in gran parte nascoste o distrutte dalla sorella e dalla moglie del primo), Finelli ha immaginato le risposte dello scrittore: nove anni di lettere metà reali e metà di fantasia, in cui si discettava di pittura, poesia, amicizia e sentimenti assai prossimi all’amore anche se mancano le prove di un’esplicita relazione tra loro. Un epistolario che si è concluso con la fucilazione del poeta a opera dei sicari del dittatore fascista Franco. Certo è che Lorca compose un Ode a Salvador Dalí in cui traspare tutto l’affetto che nutre per l’amico, definito appunto “rosa del giardino”.

La scelta registica di Gelardi sposa l’antinaturalismo col rischio però di scivolare in un eccesso di enfasi con toni quasi declamatori che non sempre si conciliano con le dinamiche della gelosia, l’attrazione cangiante in repulsione, l’invidia per il successo dell’altro, le ripicche infantili e i tentativi di seduzione. Ne esce un ritratto assai cinico di Dalí (Simone Borrelli) mentre quello di Lorca (Alessandro Palladino) ci mostra un uomo assetato e bisognoso d’amore. Riuscita e toccante la scena finale quando i due sono allacciati in un ballo malinconico che prelude alla fine della relazione ma anche della vita di uno di loro.

Museo del popolo estinto

È una delle figura di spicco del teatro contemporaneo non solo napoletano ma nazionale, al pari di Annibale Ruccello o Giuseppe Patroni Griffi: parliamo di Enzo Moscato, autore di capolavori come Rasoi, Scannasurice o Mal-d’-Hamlé. Al festival ha presentato il suo ultimo lavoro, Museo del popolo estinto (Ovvero “Carnaccia”), da lui scritto, diretto e interpretato. Nell’introduzione al testo lo definisce come “la messa a punto e la visione della progressiva ma inarrestabile estinzione, di popolo e di cultura, della gens napoletana”. Il richiamo è appunto a un museo dove non si mostra la vita nel suo corso presente ma si espongono dei reperti di quella dei tempi passati, anche lontanissimi da noi.

È una riflessione molto amara questa di Moscato sul Teatro, paragonato in una recente intervista a un supermercato o una paninoteca. Nello spettacolo appare palese il suo malessere, l’attraversamento di una crisi professionale oltre che personale. Con il palcoscenico occupato ai lati da due leggii ricoperti di rose rosse, uno per l’autore che spesso esce di scena e l’altro per una sorta di suo alter ego (l’eccellente Benedetto Casillo), l’azione si frammenta in una serie di quadri per i quali è difficile tracciare una sorta di filo conduttore.

Intervallati dalle citazioni di Artaud e Schopenhauer vediamo una Colombina e un Pulcinella che a vicenda si cercano ma non s’incontrano, altri personaggi che a turno si animano proprio come fossero statue di un museo, strappate al buio e al silenzio dei secoli, per finire con Moscato/deus ex machina che, sceso dallo sgabello del leggio, spara un colpo di pistola in testa a ciascuno dei suoi attori (Vincenzo Arena, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca e Antonio Polito). Molto colorate le scene e i rutilanti costumi di Tata Barbalato, suggestive le belle canzoni napoletane degli anni quaranta e cinquanta e partecipato l’omaggio a Franco Battiato e a Milva.

L’ala destra del dio del cuoio

È ben nota la passione che Pierpaolo Pasolini nutriva per il calcio, sia da spettatore che da giocatore: per lui questo sport era una sorta di religione, un luogo sacro della mente e del corpo dove coincidono la poesia e la speranza in un dio sudato, gioioso e disperato come noi. Dalla testimonianza di Amedeo Biavati, l’ala destra del Bologna degli anni d’oro, l’unico essere umano a cui Pasolini abbia chiesto un autografo, Sara Bilotti e Luciano Melchionna che ha curato anche la regia (ricordiamo il suo spettacolo ormai cult Dignità autonome di prostituzione) hanno tratto L’ala destra del dio di cuoio con Veronica D’Elia e Sara Esposito nella sezione SportOpera. L’assunto che il testo intende sposare è che sull’identificazione quasi sacrale del corpo dell’atleta, eletto a tempio della conoscenza e dell’autodeterminazione, dovrebbero fondersi i valori culturali dello sport antico con quelli dell’atletismo moderno. 

Il calendario della prima tranche del festival sì è chiuso circa 10 giorni fa ma proprio in queste ore ci riserva un altro prestigioso appuntamento: nell’ambito della sezione Pompeii Theatrum Mundi (ospitata al teatro Grande nel parco archeologico di Pompei) che ha già visto in scena sia Resurrexit Cassandra (scrittura di Ruggero Cappuccio, regia di Jan Fabre e protagonista Sonia Bergamasco) che Il purgatorio – La notte lava la mente (testo del poeta Mario Luzi, drammaturgia di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, anche regista), da venerdì 23 a domenica 25 luglio la star Isabelle Huppert, diretta dal regista portoghese Tiago Rodriguez (vincitore dell’ultimo Premio Europa a San Pietroburgo nel 2018) si misura con il ruolo di Ljuba in La Cerisaie – Il giardino dei ciliegi di Cechov, in una versione, conoscendo i lavori di Rodriguez, certamente lontana dai cliché se non addirittura trasgressiva.

La Cerisaie – Il giardino dei ciliegi

Il sipario non si chiude qui: a settembre ci aspetta la seconda parte dedicata alle ospitalità internazionali. Ne annunciamo solo un paio che approfondiremo sotto data: il 16 e17/9 al teatro Politeama di Napoli il coreografo e regista greco Dimitri Papaioannou, che tante premiate creazioni ha dedicato al tema della sessualità, presenta con la sua compagnia di eclettici danzatori/attori Transverse Orientation, titolo ispirato a una teoria scientifica che spiegherebbe l’attrazione delle falene per le fonti di luce, in un prevedibile vortice di simbolismi e significati, sottolineati dalle musiche di Vivaldi.  

L’altra proposta imperdibile è in programma al teatro Bellini il 23 e 24/9: il geniale regista svizzero Christoph Marthaler ritorna in Italia con Aucune Idée. Questa volta il suo lavoro intende esplorare un fenomeno mondiale, il deficit di conoscenza. Sono lacune individuali o possono diventare di gruppo? Attraverso i risultati di test olfattivi e gustativi verificheremo, attraverso molteplici lingue e voci, se questi difetti sono ereditari. Previsto un alto tasso di umorismo e irriverenza, tipici del Maestro.