Sono trascorsi 100 anni dalla nascita di Giorgio Strehler e 75 dalla fondazione del Piccolo Teatro di Milano, per celebrarli al meglio si è appena concluso il Festival Internazionale Presente Indicativo. Nel programma numerosi gli spettacoli che hanno messo al centro diversità, emarginazione e sessualità.

 

Il mese di maggio ha visto calcare i palcoscenici delle tre sale del Piccolo, sempre affollate, da artisti e compagnie provenienti da Europa, Africa, Medio Oriente e America, che hanno proposto le loro più recenti creazioni in un’alternanza tra prosa, danza e performance di alto livello.

Ad aprire la rassegna è stata la coreografa argentina, ora residente a Berlino, Costanza Macras con The Future, un’esplorazione del futuro attraverso il passato, le teorie del tempo, oracoli ed enigmi, rendendoci partecipi del pensiero della fisica Karen Barad che in Performatività della natura mette in discussione la necessità di rivedere nozioni di cambiamento, casualità e tempo/spazio. Macras con il suo teatro danza ci trasporta in un adrenalinico e coloratissimo film di fantascienza.

Un focus comprendente tre spettacoli è stato dedicato al drammaturgo, regista e scrittore Sergio Blanco, uruguaiano di nascita poi diventato cittadino francese, i cui lavori sono stati pubblicati e tradotti in 30 paesi. In tutta la sua opera Blanco applica quella che lui chiama “la poetica dell’auto-finzione”, il narrare cioè in prima persona la storia che si sta raccontando senza che per questo essa faccia parte della reale autobiografia dell’artista.

In Zoo vediamo allora che Sergio, avendo l’intenzione di scrivere un testo sulle scimmie, ottiene il permesso da quello di Parigi di poter osservare il comportamento del gorilla Tandzo, rinchiuso in una gabbia di vetro trasparente e monitorato dalla dottoressa Rozental ai fini di uno studio scientifico. Con il passar dei giorni tra lui e l’animale scatta una sorta di reciproca fascinazione che si trasforma in un sentimento amoroso, alimentato dall’ascolto insieme della musica classica, dalla visione di libri d’arte e culminato con l’ingresso notturno di Sergio nella gabbia, lasciando supporre un rapporto di natura sessuale tra loro. Come accade tra gli umani, questa passione si spegne all’improvviso: Tandzo si allontana, dimostrandosi freddo e indifferente, lasciando Sergio costernato. In realtà la causa del suo distacco è una malattia contratta in Africa che lo porterà in breve alla morte.

foto: Masiar Pasquali

Blanco ha davvero studiato per mesi il comportamento di un gorilla nello zoo parigino per poi aggiungere alla vicenda al centro della pièce, di cui ha curato anche la regia, altri elementi di fantasia. Nei suoi panni si è calato il poliedrico Lino Guanciale, qui anche cantante e strumentista, con lui Sara Putignano, dottoressa in crisi che in alcuni momenti si trasforma in Edda Ciano (personaggio storico che l’autore vorrebbe protagonista di una sua nuova commedia) e Lorenzo Grilli, atletico ed espressivo nonostante l’ingombrante costume da gorilla.                                                                          

Come sempre nella doppia veste di autore e regista, Blanco ci ha poi mostrato El Bramido de Düsseldorf (il bramito è l’urlo del cervo, N.d.A.) in cui racconta l’agonia e la morte del padre con il quale si è recato da Parigi nella città tedesca per avviare la trattativa con una casa cinematografica che lo vuole ingaggiare per girare film pornografici, dettaglio che non vuole rivelare al genitore, giustificando il viaggio con l’inaugurazione di una mostra su un sadico serial killer dell’inizio del novecento per cui ha scritto il catalogo.

Per Sergio è l’occasione di un confronto serrato tra un padre anziano e conservatore e un figlio non risolto nel quale affiorano ricordi e incomprensioni, oltre al non taciuto nodo dell’omosessualità e a quello della sua ipotizzata conversione all’ebraismo con relativa cerimonia nella sinagoga locale. Solo e angosciato in hotel, Sergio cerca di rilassarsi masturbandosi davanti al video hardcore di uno dei pornodivi che dovrebbe ipoteticamente dirigere, offerta cui rinuncerà dopo la perdita del padre.

foto: Nairí Aharonián

Il terzo lavoro, Quando Pases Sobra Mi Tumba, affronta due temi davvero scomodi e spinosi: il suicidio assistito e la necrofilia. Qui lo scrittore, pur non soffrendo di alcuna malattia, prende accordi con una lussuosa clinica di Ginevra per porre fine alla sua vita. Nello stesso periodo scopre per caso l’esistenza di un giovane necrofilo rinchiuso in un ospedale psichiatrico londinese e riesce, non senza difficoltà, a incontrarlo.

Scatta immediata l’attrazione che presto si trasforma in innamoramento: il giovanotto fa chiaramente intendere che tra loro non ci potrà mai essere alcun tipo di rapporto se non quando Sergio sarà morto e sepolto. Lui raggiungerà il cimitero nei pressi del manicomio, dove profanerà la tomba e si unirà al corpo in un amplesso con un rituale a metà tra orrore e tenerezza. Decisamente cruda, ma realistica è l’ultima parte della pièce in cui il medico della clinica illustra a Sergio la procedura del suicidio rinnovandogli più volte la domanda circa un eventuale ripensamento e rivelandogli anche il suo doloroso passato.

La decisione però è presa e portata a conclusione, compreso il macabro accordo con il necrofilo. In questa trilogia Blanco dirige con mano sicura, pur dando l’impressione di lasciare loro molta libertà, un gruppo dei suoi fedeli attori di lingua spagnola che interpretano più personaggi e sempre uno si cala nelle vesti dell’autore.

A uscire dalla biografia o dalla vicenda personale ci pensa lo svedese Marcus Lindeen, autore e regista di cinema e teatro, con il dittico Wild Minds e L’Aventure Invisible. Nel primo coinvolge gli spettatori in un’immaginaria seduta di terapia di gruppo, dove il tema sono i sogni, non solo notturni ma anche quelli a occhi aperti, e di come talvolta essi possono trasformarsi in ossessioni, fino a condizionare la vita di alcuni.

Il secondo vede al centro i temi dei misteri della mente, della morte e della trasformazione attraverso tre storie emblematiche: una neurologa che a causa di un ictus perde la memoria e deve ricostruire l’intera vita, un uomo maturo sofferente di una malattia degenerativa che si sottopone per primo al mondo a un trapianto totale di volto il cui donatore era un giovane di 25 anni, e una cineasta che, sotto l’influenza dell’opera fotografica dell’artista queer francese surrealista Claude Cahun (1894-1954), si trova a ripensare alla sua identità, scegliendo il genere neutro.

foto: Magali Dougados

Altri spettacoli, invece, hanno privilegiato tematiche legate a istanze sociali, all’emarginazione, alla lotta per la conquista dei diritti più elementari. Tra questi ricordiamo Entre Chien et Loup della brasiliana Christiane Jatahy (Leone d’Oro alla prossima Biennale Teatro) che s’ispira a Dogville, il film di Lars von Trier, per raccontare l’odissea della giovane profuga Graça, esule dal suo paese per salvarsi dalle minacce di un regime repressivo, che è accolta all’interno di una piccola comunità. All’inizio la nuova arrivata sembra essere bene accetta però presto si scatenano dinamiche di gelosie, sopraffazione e sfruttamento per culminare in una violenza sessuale. Jatahy dirige un ensemble multilingue che si avvale dell’uso dei video e delle riprese in contemporanea: tutto funziona assai bene alla ricerca dell’empatia con lo spettatore, comunque talvolta si avverte la mancanza di spontaneità, con la sensazione di una costruzione prefabbricata che manca di passione.

Agli sbarchi dei migranti a Lampedusa si è ispirato il palermitano Davide Enia per L’abisso, tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio, in cui si fa portavoce delle testimonianze raccolte dai pescatori, medici, residenti e personale della Guardia Costiera. A guardare il mondo con gli occhi del personale della Croce Rossa e di quello di Medici Senza Frontiere, che ha incontrato a Ginevra si è cimentato il regista portoghese Tiago Rodriguez (da quest’anno direttore del festival di Avignone) con Dans la Mésure de l’Impossible, uno spettacolo multilingue che testimonia l’impegno di uomini e donne che si battono nella speranza di dare a chi soffre la speranza di un mondo migliore.

Entrambi provenienti dal Burkina Faso sono Aristide Tarnagada che in Façon d’Aimer, di cui è autore e regista, racconta il processo di una ragazza nera ingiustamente accusata di aver ucciso il marito e la sua quinta moglie, una donna bianca, e il coreografo Serge Aimé Coulibaly con Wakatt, una creazione – con la collaborazione musicale di Magic Malik – che vuole esplorare la natura del genere umano e il suo istinto di crearsi un futuro partendo dalle sfavorevoli condizioni del presente.

Dall’Iran arriva l’autrice, regista e attrice Parnia Shams che ha presentato Is, immergendoci nella realtà di una classe femminile, evidente simbolo dell’attuale società iraniana, dove la ferrea disciplina e le regole costrittive sono mal sopportate dalla sedicenne Mahoor, da poco arrivata a Teheran. Il suo comportamento ribelle le aliena le simpatie dell’insegnante e delle compagne tranne che quella della più brillante del gruppo con cui stringe una complice amicizia che potrebbe sfociare in una relazione più profonda. Questo tenero e innocente rapporto è subito censurato e osteggiato sino a costringere Mahoor a lasciare la scuola.

foto: Kurt Van der Elst

Nella rassegna la palma dell’originalità la meritano sia The Sheep Song del collettivo multinazionale FC Bergman, una favola senza testo di cui è appunto protagonista una pecora che, abbandonando il gregge, diventa uomo e perde l’innocenza (in una sensuale scena di nudo) smarrendosi nel mondo, e Beckett’s Room della compagnia irlandese Dead Centre. Qui in scena non ci sono gli attori: le loro voci le sentiamo solo in cuffia mentre sul palco si muovono in maniera ingegnosa gli oggetti dell’appartamento parigino in cui il drammaturgo viveva nel 1942 con la sua compagna durante l’occupazione tedesca, in seguito devastato dai nazisti da cui, entrambi impegnati nella Resistenza, erano fortunosamente riusciti a sfuggire per poi farvi ritorno solo tre anni dopo.

Veniamo infine ai due spettacoli che, a nostro parere, sono stati la punta di diamante del festival. Parliamo di Deux Amis scritto e diretto da Pascal Rambert, assai noto per i precedenti Clôture de l’amour e Répétition, che, avvalendosi degli straordinari Charles Bering e Stanislas Nordey, li trasforma una coppia di attori molto unita (nella pièce conservano i propri nomi) che vive e lavora insieme.

foto: Vincent Bérenger

Li vediamo alle prese con il riallestimento della trilogia molieriana diretta da Antoine Vitez negli anni Settanta ed entrata nella storia del teatro francese anche per l’estrema essenzialità degli elementi scenici. Tutto procede bene – seppur con qualche schermaglia dovuta a pareri discordi sulla scelta delle suppellettili – e c’è anche spazio per una parentesi birichina di sesso esplicito quando i due si scambiano un coito anale (una lezione di come si possa rappresentare in palcoscenico un amplesso realistico ma non reale senza scadere nella pornografia o volgarità), sino a quando Stanislas riceve un messaggio sul cellulare che scatena nel compagno una crisi di gelosia, presto degenerata in un furibondo litigio.

Con un inatteso scarto temporale di settimane o mesi, vediamo Stanislas mandare letteralmente in pezzi tutti gli arredi prima selezionati in un impeto distruttivo: la ragione la comprendiamo nella scena successiva, dove lui sorregge Charles prossimo a morire, assistito amorevolmente dal partner in una postura che ricorda la Pietà michelangiolesca.

foto: Johanna Weber

L’altro lavoro che ci ha emozionato è stata una lettura davvero originale e personalissima di Casa di bambola di Ibsen che il maestro greco Theodoros Terzopoulos ha semplicemente titolato Nora. Con una felicissima intuizione il regista ha innestato nel dramma, asciugato e ridotto all’essenziale con i soli personaggi della protagonista, del marito Torvald e del ricattatore Krogstad, il modello della tragedia greca, assimilando la figura di Nora a quella di Antigone. Nella scena composta da semplici pannelli bianchi e neri che fungono da porte o paraventi agiscono modulando voci, mani e corpi tre meravigliosi interpreti: Sophia Hill, Tasos Dimas e Antonis Myriagkos. Finale rigorosamente aperto come indicato da Ibsen con Nora coperta interamente da un enorme mantello di tulle nero e distesa sui gradini tra palco e platea del teatro Grassi che tributerà poi 10 minuti di applausi.

A corollario degli spettacoli (tutti sovratitolati in italiano e inglese) la kermesse ha offerto la possibilità di rivedere le registrazioni dei lavori più significativi di Giorgio Strehler e ha organizzato un meritorio Focus Ucraina, dando voce in questo momento difficile ad artisti e intellettuali del paese in guerra con un programma di letture e dibattiti, senza dimenticare gli incontri con il pubblico di tutti i registi e le compagnie presenti nel cartellone. Milano, guardando oltre le frontiere, aveva necessità di questo evento dal respiro internazionale.