Gli anni ’80 furono il decennio che ha mandato in frantumi le divisioni elitarie tra cultura alta e cultura della strada, e in questo contesto Keith Haring inventò il suo linguaggio universale, fatto di segni immediatamente accessibili al pubblico di tutto il mondo e di ogni età. Il suo lavoro pop all’apparenza solo scanzonato, interrogava però anche alcune delle questioni urgenti del suo tempo, e purtroppo ancora del nostro, come omofobia, razzismo, distruzione ambientale, eccetera. Ritratto sfaccettato di un genio gay solitamente censurato al grande pubblico.
Keith Haring fu al contempo un artista di fama mondiale, un attivista gay dichiarato e socialmente impegnato (entrambe le cose ai suoi tempi non erano affatto scontate), un uomo d’affari. Una combinazione simile, probabilmente, si poteva creare in un unico decennio, gli anni ’80 del secolo scorso, in un unico paese, gli Stati Uniti d’America, e in un’unica metropoli, New York City. Difatti, in questa medesima combinazione geografica e temporale si assiste alla nascita di Madonna, grande amica di Haring, che presenta a proprio modo medesime caratteristiche: pop star, icona gay planetaria, businesswoman di perdurante successo.
La filosofia di Haring è racchiusa in una frase all’apparenza semplice che scrisse nei suoi diari nel 1978, all’età di 20 anni, quando ancora era lontano dal pensare che sarebbe potuto diventare un artista affermato: art is for everyone, l’arte è per tutti. Alla fine del 1989, pochi mesi prima di morire, Haring era un divo planetario di prima grandezza. Idolatrato in Giappone come un mito, ammirato e stimato in Europa, sostanzialmente snobbato e detestato negli Stati Uniti. ”Mi chiedo se il mondo dei musei mi accoglierà mai così, o se scomparirò con la mia generazione” annota, perché non gli si perdonava di aver infranto e capovolto le regole del gioco, essendo diventato conosciuto e amato dal pubblico partendo dal basso ed evitando la selezione dell’elitario mondo dell’arte.

ph. Joseph Szkodzinski
Haring crebbe in una famiglia convenzionale, guidata da un uomo rispettabile, a Kutztown, piccola città di provincia in Pennsylvania. Suo padre Allen era un repubblicano che frequentava la chiesa, sosteneva Nixon e che nel tempo libero disegnava vignette incoraggiando il figlio a fare lo stesso. Haring sviluppò quindi un amore per il disegno in giovane età grazie lui che gli insegnò i primi rudimenti del fumetto, influenzato dalla cultura per l’infanzia dell’epoca come i libri di Dr. Seuss, Walt Disney e altri eroi delle animazioni televisive. In famiglia si notò presto la sua propensione artistica e l’arte fu un interesse centrale durante la sua adolescenza ribelle e sperimentale, con consumo di droga e alcol e viaggi in autostop in giro per il paese. A San Francisco, con la frequentazione della Castro Street, inizia a manifestare il proprio orientamento omosessuale.
Nel 1978 si trasferisce a New York, dove si iscrisse alla School of Visual Arts. È il secondo tentativo di intraprendere un percorso di formazione “regolare” nel campo dell’arte, ma come il primo subito dopo il liceo, la Ivy School of Professional Art a Pittsburgh, sarà abbandonato per continuare uno strenuo apprendistato personale a base di libri, visite a mostre e riflessioni su tutti gli stimoli che ne riceve. Se Haring a scuola sperimenta la performance, i video e fa installazioni, è alla pratica del disegno però che resta fortemente legato, iniziando a perfezionare quel tratto distintivo che lo renderà riconoscibile a prima vista.
Nel 1980 si accorge dei fogli neri opachi che coprono le pubblicità a cui è scaduta la tassa di affissione nei corridoi delle stazioni della metropolitana. Sono una specie di lavagna che gli permette di comunicare con un pubblico ampio, popolare nel senso che quasi di sicuro non mette mai piede né in una galleria d’arte né in un museo, né regolarmente né probabilmente mai. Per cinque anni produce centinaia di questi subway drawings, facendosi multare ripetutamente e persino arrestare per atti di vandalismo. La gente però inizia ad accorgersi di lui, e la sua arte semplice e simbolica diventa una compagnia familiare per i pendolari che vanno in ufficio, tanto che qualcuno inizia a strappare i disegni per portarseli a casa.
Altra svolta epocale della sua carriera è l’incontro personale con Andy Warhol, a cui fu legato da amicizia sincera e profonda (lo portò come ospite al matrimonio di Madonna con Sean Penn a cui era stato invitato), e che considerava il suo maestro. “La vita e il lavoro di Andy hanno reso possibile il mio lavoro. Andy aveva stabilito il precedente che rende possibile l’esistenza della mia arte. È stato il primo vero artista pubblico in senso globale”. Eppure, sotto certi aspetti, l’allievo supererà il maestro in molti sensi. A differenza di Warhol, sarà un omosessuale pubblicamente dichiarato e nel momento in cui si scoprirà sieropositivo diventerà un attivista che lotta in prima linea insieme ad Act Up, rilasciando al riguardo un’intervista choc per l’epoca alla rivista Rolling Stone nel 1989. Haring sapeva di essere a rischio però accettò il proprio destino.
Nel 1982 alla Tony Shafrazi Gallery a SoHo tenne la sua prima mostra personale e niente fu più uguale a prima. Come dice Madonna nella biografia ufficiale di Haring: “ll lavoro di Keith iniziò nelle strade e attirò l’attenzione delle stesse persone che si interessavano a me: soprattutto neri e ispanici, persone con un basso reddito e un background umile. (…) Keith è riuscito a portare nella cultura popolare alcuni elementi di quella che io chiamo Street Art, arte che faceva parte di una controcultura underground. Io feci lo stesso, portando al consumo di massa uno stile nato nelle strade”.
Haring, inoltre, affronterà e a modo suo rappresenterà i temi di attualità della sua epoca: dalla minaccia dell’annientamento nucleare all’oscenità dell’apartheid in Sud Africa, il modo in cui il capitalismo aumenta le disuguaglianze e il bisogno che le persone hanno di avere uno scambio emotivo in un mondo che iniziava a conoscere le rivoluzioni della tecnologia. Fino all’orrore dell’AIDS simbolizzato come un serpente. Anche la sua sessualità, inquieta e senza sosta, lascerà tracce inequivocabili nel suo linguaggio visuale ma, purtroppo, è rarissimo vederle nelle grandi mostre retrospettive che gli si dedicano.
La sua produzione omoerotica che rasenta la pornografia elevata ad arte, infatti, è quella che indubbiamente rappresenta la più grande e biecamente censurata pietra dello scandalo nel percorso artistico di Haring. Una rarissima testimonianza al riguardo sono i murales, restaurati e tuttora visitabili, che dipinse nei bagni del Gay Lesbian Community Service Center nel Greenwich Village, a poca distanza da dove si trova un suo innocente murale dipinto sulla parete di una piscina pubblica all’aperto. Anche la poco conosciuta grande tavola rosa di forma fallica intitolata The Great White Way del 1988 ne è un esempio.

The Great White Way
Persino nel melenso documentario The Universe of Keith Haring di Christina Clausen dei bagni se ne vede solo uno scorcio tramite una fotografia in bianco e nero per pochi secondi, quasi si tratti di una citazione di sfuggita e un po’ imbarazzata. Una classica proposta amputata ed edulcorata insieme, forse studiata per raggiungere il maggiore pubblico possibile comprese le famiglie con bambini. In fondo l’arte di Haring è considerata giocosa e un po’ infantile, ingenua nella sua solo apparente lineare semplicità. Anche il casto annullo postale speciale da lui disegnato, emesso per il lesbian & gay pride del 25 giugno 1989 che celebrava il ventennale della rivolta di Stonewall, fece infuriare l’ultraconservatore senatore repubblicano Jesse Helms che si scagliò pubblicamente contro le autorità postali.
Il terzo fondamentale capitolo della sua storia personale si può definire l’apertura del Pop Shop al numero 292 di Lafayette Street nel 1986, anno in cui la sua popolarità è immensa tanto che è oggetto di oltre 100 articoli di giornale. È un esperimento che esportò successivamente a Tokyo: un negozio che permetteva a chiunque di sentirsi parte del suo mondo per pochi dollari, comprando magliette, poster, spille, magneti per frigorifero, giocattoli per bambini o, magari, uno dei quattro modelli di orologio a tiratura limitata che Haring disegnò per la Swatch. Pur non essendo tra gli esemplari più quotati tra i collezionisti, il “Modèle avec personnages” con i suoi omini che ballano la breakdance al posto dei numeri delle ore è sicuramente paradigmatico di un intero decennio: plastica, colori vivi, moda e design per chiunque. Con piena benedizione del maestro, la lezione di Andy Warhol era stata superata e la pop art ha raggiunto la gente.
In parallelo Haring è invitato a esporre e proporre la sua arte in tutto il mondo e su qualsiasi possibile mezzo: dalle vetrate della National Gallery of Victoria di Melbourne in Australia (distrutte per protesta, perché i suoi disegni appaiono come un insulto alla pittura aborigena) a una sezione del muro di Berlino; dai tessuti per una collezione dello stilista Stephen Sprouse all’etichetta d’artista per gli snobbissimi vini Château Mouton Rothschild (inserendosi in una lista che comprende nomi del calibro di Picasso, Dalì, Cocteau, Mirò, Chagall, Kandinsky…); da un muro nell’ospedale per bambini del principato di Monaco (che gli varrà un’onorificenza ufficiale raramente concessa a chi non è monegasco da parte della principessa Carolina) a una BMW che sarebbe dovuta entrare nella serie ufficiale Art, la cui quotazione ora è di svariati milioni di dollari (ma anche una moto, una Range Rover, una Buick e una Ferrari giocattolo per bambini esposti insieme a Los Angeles nel 2023). Nella lista è incluso un dirigibile che vola sopra Parigi, un casinò in Belgio accanto alle decorazioni originali di Réné Magritte, una giostra per un parco di divertimenti a tema in Germania, un invito a forma di disco inciso a 45 giri per una festa di compleanno della principessa Gloria von Thurn und Taxis, tanto per restare nel camp, e tanto altro ancora.
Per quanto riguarda il nostro paese, è soprattutto il rapporto tra Haring e Milano che fu profondo, e non solo perché all’aeroporto, durante le soste tra una tappa e l’altra dei suoi giri intorno al mondo, vi incrociava la sua amica Grace Jones o magari Roy Lichtenstein. Fu alla galleria Salvatore Ala che nel giugno 1984 tenne la prima personale italiana, per cui disegnò apposta uno dei suoi più bei manifesti. Considerava il Plastic il migliore “club” europeo e sua fu la trasformazione radicale del negozio Fiorucci in Corso Vittorio Emanuele, di cui nel 1985 riempì di graffiti i muri, i mobili, i soffitti con colori fosforescenti.
In un’intervista al mensile Stilearte del 2005, Elio Fiorucci racconta così quella esperienza: “Invitai Haring a Milano, stregato dalla sua capacità di elevare l’estemporaneità ai gradini più alti dell’arte. Egli diede corpo ad un happening no stop, lavorando per un giorno e una notte. I suoi segni ‘invasero’ ogni cosa, le pareti ma anche i mobili del negozio, che avevamo svuotato quasi completamente. Fu un evento indimenticabile. Io feci portare un tavolone, fiaschi di vino, bicchieri. La gente entrava a vedere Keith dipingere, si fermava a bere e a chiacchierare. Ventiquattr’ore di flusso continuo; e poi i giornali, le televisioni…”
Adesso le sue immagini sono superficialmente replicate su ogni genere di gadget, però hanno perso o forse bisogna dire che ne è stata opportunamente cancellata la carica politica iniziale. Sono sempre attraenti, con un’esuberanza e una gioia che parlano a persone di tutte le età e di tutte le estrazioni. Questa qualità universale ci attira verso l’opera di Haring, ma può indurre alcuni a pensare che la sua arte sia superficiale e facile da realizzare. Non è così.
Il suo lavoro era immediato (realizzava opere senza disegni preparatori) e senza tempo, però è radicato nel suo tempo. A metà degli anni Ottanta, mentre la sua carriera volava alta, a New York l’ambiente spensierato cominciò a cambiare. L’AIDS attraversò la città come un incendio, la gente si ammalava e moriva nel giro di due settimane, un’intera generazione fu uccisa nell’indifferenza del presidente Ronald Reagan. Chissà come sarebbe evoluta la sua arte e cosa direbbe ora della seconda elezione di Donald Trump e delle sue discutibilissime idee e azioni politiche anti-immigrazione, a favore delle armi, anti-aborto, contro le persone transgender…
Haring aveva una mentalità pubblica e la sua arte era rivolta verso l’esterno. Voleva informare, avviare una conversazione, mettere in discussione l’autorità e le convenzioni, rappresentare gli oppressi. Il linguaggio della sua arte era accattivante, con una qualità di intrattenimento, ma era anche un’enorme, bellissima forma di attivismo dell’epoca.
Keith Haring sentiva di poter essere utile e credeva che l’arte fosse capace di trasformare il mondo, poiché le attribuiva un’influenza positiva sugli uomini. Forse non è a caso che il suo ultimo capolavoro pubblico lo intitolò “Tuttomondo” ed è un coloratissimo murale di centottanta metri quadri sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa, in cui riproduce tutti i simboli che lo hanno reso celebre. Se Haring fosse vissuto più a lungo avrebbe sicuramente superato lo stile che lo rese famoso, e questa direzione è lampante nelle sue ultime opere su tela, ma a soli 31 anni si spense. Sicuramente da lassù, con il suo disarmante sguardo da bambino curioso, ci guarda e sorride.