Come difendere i nostri diritti se si cambiano le definizioni delle parole che ci riguardano, o peggio se non si trova un accordo condiviso sul loro significato e valore? Un commento autorevole sull’affossamento del DDL Zan e la questione ingarbugliata dell’identità di genere.

foto Rete Lenford – articolo apparso su giovannidallorto.wordpress.com con il titolo “Il DDL Zan e il nodo non sciolto dell’identità di genere”

 

Sul fatto che sia necessaria e urgente una legge che sancisca l’inaccettabilità sociale del bullismo, della discriminazione, della violenza contro chi è “diverso”, ho già avuto modo di dire in tempi non sospetti qui e altrove.


Sul fatto che il testo di legge più adatto a ottenerlo dovesse essere il DDL Zan qualche dubbio l’ho avuto, ma ho preferito tacere per non portar acqua al mulino di coloro che non è che avessero dubbi su quel testo di legge, è che si opponevano a qualsiasi legge in materia perché ritenevano loro diritto insultare e perseguitare chi è “diverso”.

Ora che questo DDL è di fatto morto (mancano ormai i tempi tecnici per approvarlo prima della scadenza della legislatura, anche se ci fosse la volontà politica per farlo, che comunque non c’è), vorrei fare un passo avanti e discutere del “dopo”. Per non farci trovare impreparati ancora una volta, l’ennesima, alla prossima (e si spera definitiva) tornata.
 Vorrei riflettere sul singolo punto che da solo ha alzato la temperatura del dibattito fino all’incandescenza: il concetto di “identità di genere“.

Sul fatto che una legge contro le violenze ai danni della realtà LGBT debba comprendere le persone trans non ci piove, tanto più che ampie fasce del paese ancora non riescono a distinguere fra trans e gay, e guarda caso queste fasce sono esattamente quelle che coltivano la “violenza omotransfobica”.
 Sul fatto che il modo più adatto per combattere tali violenze sia introdurre il concetto vago e confuso di “identità di genere”, invece, ho molto da dire. Come hanno avuto da dire anche settori non trascurabili del mondo femminista, il rifiuto di dialogare coi quali ha contribuito a portare al brillante risultato che abbiamo appena visto tutti.

Il concetto di “identità di genere”, lungi dall’essere un concetto chiaro, adatto a introdurre un’elaborazione nuova e importante nelle leggi italiane, è un minestrone confusionario, un attaccapanni da cui pendono almeno quattro (se non cinque) significati, spesso in conflitto fra loro.

Il primo, quello a cui pensiamo tutti quando lo sentiamo nominare, è la propriocezione del nostro corpo in quanto realtà biologica sessuata.
 Credo che sia il significato di default a cui istintivamente pensa la maggioranza delle persone quando sente parlare di “identità di genere”. Così come “sentiamo” di avere la mano destra e il piede sinistro anche a occhi chiusi, così “sentiamo” di possedere un corpo costruito in un modo che fa di ciascuno di noi un maschio o una femmina.

Ciò appartiene a una serie di fenomeni neurologici e psicologici, che vanno dalla “sindrome dell’arto fantasma” alla funzione dei “neuroni specchio“, che non è assolutamente il caso di discutere qui, ma che stanno alla base della nostra autopercezione, ossia di ciò che fa dire a ciascuno e ciascuna di noi “io sono io”.


Il fenomeno in base al quale alcuni e alcune di noi abbiano una propriocezione non combaciante con la realtà biologica non solo non smentisce questo concetto, ma ne conferma semmai la natura istintiva, o comunque innata. Per lo meno, nessuno ha mai scoperto il modo di indurre dall’esterno una propriocezione, “giusta” o “sbagliata” che fosse.


In passato avevo contestato qui la posizione estremistica delle compagne “femministe radicali” che sostengono, puramente e semplicemente, che “l’identità di genere non esiste, punto”. Mentre concordo sul fatto che il concetto non abbia senso in alcuni degli altri usi che sto per elencare, trovo che il suo uso come sinonimo di “propriocezione” sia decisamente utile. Questa è ovviamente solo una mia opinione, ma resta il fatto che io la penso così.

Questo primo significato è in diretta contraddizione col secondo, che è quello che domina negli scritti e nei discorsi queer e del transattivismo. L’identità di genere è un senso di appartenenza a una essenza misteriosa, mistica, magica, invisibile e indefinibile che abita dentro ciascuno e ciascuna di noi (è un po’ come l’anima, per i cattolici) e che ci rende maschi e femmine, al punto che sulla base di essa i nostri corpi diventano corpi maschili o corpi femminili.


Un corpo visibilmente con utero e seni abitato dalla mistica e invisibile essenza dell’identità di genere maschile, è un corpo maschile. Un corpo visibilmente con pene e barba abitato dalla mistica e magica essenza dell’identità di genere femminile, è un corpo femminile. Come ci insegnano Paul Preciado e Julia Serrano, nonché uno sciame di queer e queerini al loro traino.
 Affermare il contrario è una forma di “essenzialismo biologico“, e ovviamente (l’accusa è ormai immancabile) “transfobia“.

Il terzo significato funziona come eufemismo queer per: “identificazione nel sesso biologico di appartenenza”.
 La parola “sesso” è stata un tabù per molto tempo, ed è tornata a esserlo, dopo i decenni della “liberazione sessuale”, grazie alla sessuofobia neopuritana americana, oggi provvisoriamente di moda. 


Il neopuritanesimo americano si esprime con modi tradizionali a destra (“il sesso è una cosa sporca”), ma con modi innovativi a sinistra, essendo riuscito a infiltrarsi tanto nel femminismo radicale (che parlando di prostituzione, pornografia e sesso ha toni spesso indistinguibili da quelli evangelical), quanto nel transattivismo che, come detto al punto precedente, ritiene che il sesso biologico nelle nostre vite non abbia alcun diritto di esistere, se non come conseguenza (Judith Butler insegna) socialmente costruita e illusoriamente binaria, della nostra identità di genere.
 Questa confusione è particolarmente comune sui social media, ma si trova ormai ovunque sulla Rete, insegnandoci che “L’orientamento sessuale rappresenta il genere [sic] delle persone a [sic] cui ci si sente attratti“.

Un quarto e ultimo significato è quello usato dai giuristi, che quindi riguarda più da vicino il discorso sui progetti di legge. I miei amici che sostengono lo slogan “DDL Zan o morte” contestano la mia osservazione sulla “confusione” del concetto di “identità di genere”, dicendo che non è per nulla confuso, tanto che è utilizzato da anni nelle sentenze, fra le quali spicca quella, importante, 180/2017 della Corte Costituzionale.


Tuttavia, se andiamo a leggere quel testo scopriamo che i giudici della Consulta in realtà utilizzano il sintagma “identità di genere” come sinonimo di “registrazione anagrafica del sesso”:
 “il Tribunale riferisce di essere chiamato a decidere in ordine alla domanda di rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, avanzata da una persona non sposata e senza figli, intenzionata al riconoscimento di una nuova identità di genere, diversa da quella attribuita alla nascita.


Si noti qui come l’uso del concetto dei giudici della Consulta si ponga in diretta contraddizione del secondo significato che ho appena elencato. L’identità di genere non è, infatti, per loro una magica e immutabile essenza interiore che ci si porta dentro dalla nascita alla morte, bensì una prosaica “attribuzione” imposta socialmente dall’esterno alla nascita, che può essere sostituita da una “nuova”.


Non è importante sapere quale delle due definizioni sia “giusta” (del resto stiamo parlando di un concetto in tumultuosa evoluzione). Importa semmai far notare come le due concezioni si contraddicano e annullino a vicenda. 
Infatti, sia che l’identità di genere risulti innata oppure attribuita alla nascita, sia che risulti immutabile oppure sostituibile da una “nuova”, resta comunque il fatto che non può essere tutte queste cose allo stesso tempo, e che quindi, come minimo, il legislatore ha il preciso dovere di spiegarci in quale dei molteplici significati stia adoperando il concetto.


Il DDL Zan (qui è possibile scaricare il Pdf del testo), su espressa richiesta del mondo femminista, lo ha fatto all’articolo 1:
 “per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”,
 avendo debitamente chiarito in precedenza che:
 “per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”.


Qui sarà facile notare come il chiarimento del DDL Zan dia una definizione differente da quella della Consulta: qui, infatti, l’identità di genere è l’identificazione negli stereotipi sociali che (se a torto a ragione, non importa) un individuo prova dentro di sé. (Nota bene: se il femminismo radicale non fosse contrario all’uso del sintagma “identità di genere”, la definizione datane del DDL Zan come “identificazione negli stereotipi socialmente costruiti associati al sesso biologico” andrebbe qui aggiunta alle quattro che sto elencando, come definizione che il femminismo radicale darebbe del concetto, se lo usasse).


Una volta di più, non importa sapere se sia “giusto” il significato usato dalla Consulta, quello usato nel DDL Zan, o altri ancora: qui è essenziale far notare che siamo di fronte a significati diversi, tutti veicolati da un unico significante che, proprio per il fatto di inglobare tutto e il contrario di tutto, finisce per essere un termine “minestrone”.
 Cercare di definire cosa sia l’identità di genere usando queste precise parole è un po’ come cercare di definire quale verdura “sia” il minestrone.

Affidereste voi il dibattito e il destino politico di una minoranza o di un movimento a una legge che stabilisce punizioni per chi discrimini in base a “non si sa cosa” e “non si è capito bene cosa”?
 O forse, al di là della pretesa secondo cui il DDL era il miglior testo legislativo possibile e immaginabile, è possibile fare meglio di così? Io sono convinto che sia possibile.

Post scriptum

L’evoluzione negli ultimi mesi del dibattito LGBT all’estero mi ha insegnato due cose.

Primo, l’alta marea del queerismo ormai è passata e da qui in poi il flusso inverte la direzione. Sempre più persone fino a ieri scettiche sulle mie analisi mi scrivono o mi dicono che avevo ragione io, e che non ero io che stavo drammatizzando, visto che infine è successo anche a loro qualcosa di ciò che noi “gender critical” denunciavamo da anni.

Secondo, che ci siamo trovati in questa situazione anche presi alla sprovvista da un fenomeno contingente, nuovo nella storia umana: i social media. Un potentissimo e brillante strumento di comunicazione, totalmente nuovo e totalmente non regolato, che per come è stato concepito (nell’epoca della deregulation antisociale del neoliberismo) favorisce i toni isterici, le estremizzazioni, l’istrionismo, l’esibizionismo, la rissa mediatica fine a se stesa ma anche (e questo lo abbiamo tenuto poco in considerazione) la mancanza di empatia, la sociopatia, l’egocentrismo e il narcisismo.


Siamo animali evolutisi per milioni di anni in branco/gruppo (come dimostra la facilità con cui siamo capaci di scatenare il mobbing sui social media). Una porzione spropositata della nostra corteccia cerebrale serve a controllare i muscoli della mimica facciale, per capire e fare capire nel gruppo le emozioni reciproche.


I social media ci hanno letteralmente “messi al riparo” dal guardare in faccia la persona che stiamo mobbizzando, ci hanno privato dei segnali che nel gruppo in qualche modo smorzano l’aggressività verso le persone note (con gli estranei, è un’altra storia). Ci hanno messi al riparo dall’empatia, hanno premiato le personalità sociopatiche, ossessive, narcisistiche, esibizionistiche.
 Ciò ha contributo in modo determinante alla frustrante impossibilità di risolvere via social qualsiasi dibattito, che ha iniziato a venir meno solo da quando finalmente quel dibattito è debordato nella vita reale.

Infatti, per lungo tempo, alla maggior parte delle persone reali, ciò che stava succedendo sui social e nelle università è sembrato una montatura mediatica, un’esagerazione. “Di sicuro” nessuno può sostenere che è fisicamente possibile cambiare il sesso biologico. “Certamente” nessuno è così ridicolo da sostenere che esistono donne col pene e uomini con la vagina. “Senz’altro” nessuno è così cretino da confondere il sesso col genere. “Ovviamente” nessuno può pretendere che le lesbiche abbiano il dovere morale di fare sesso con le “donne con il pene”. “Naturalmente” tu, Giovanni Dall’Orto, ti stai inventando tutto… Insomma, a nessuno fregava nulla di quanto veniva detto sui social. Et pour cause. Era solo vita virtuale, una simulazione.

Quando però ciò che era maturato sui social media ha iniziato a traboccare nella vita reale (soprattutto nei tribunali), la gente ha iniziato a reagire prima con incredulità, e poi con indignazione.


Nel Regno Unito la reazione a catena della ribellione è già stata innescata, come sa chi segue la cronaca di quella nazione. In Italia ancora no, ma le premesse ci sono già. Forse ci vorrà ancora qualche anno, e certo la generazione che ha fatto di queste idee il fondamento della propria identità sociale non potrà ormai più tornare indietro e sarà costretta a morire su quella trincea (e certo venderà cara la pelle), ma più chi non è sui social o nelle università scopre quanto vi viene detto, e più “raggiunge il colmo“.


Oggi sono convinto del fatto che le follie coltivate in ristrette cricche (una delle quali, ahimè, è il movimento a cui ho dedicato la vita, ma vabbè, nessuno di noi è padrone del futuro) siano destinare alla sconfitta perché intimamente autocontraddittorie, perché non possono reggere il confronto con la realtà quotidiana.

 Probabilmente questo è il motivo per cui l’attivismo queer rifiuta sistematicamente, caparbiamente, ottusamente il dibattito e il confronto nella vita reale, per questo sostiene la tesi del “no debate“, per questo mette il veto alla presenza mia e di chiunque altro o altra la pensi come me a qualsiasi conferenza o dibattito o presentazione.


Perché in fondo sa di avere una speranza di sopravvivenza solo fino a che questo dibattito resterà puramente virtuale. Come i vampiri, un solo raggio di luce non artificiale basterebbe a distruggerlo. Ma non importa.
 Rifiutare di dibattere significa unicamente che il dibattito sta già comunque avendo corso, talora perfino in modo animato, solo, in loro assenza.

Tutto qui.