La prima rilevazione del virus HIV risale a 40 anni fa e da allora la realtà, e la sua relativa narrazione, sono passate da “sentenza rapida di morte” a “malattia non ancora guaribile con cui convivere senza trasmetterla”. Un documentario italiano racconta in modo inedito le vite ordinarie di quattro persone sieropositive molto diverse tra loro e non solo.

 

Non è un’impresa facile riuscire a descrivere la storia italiana del virus HIV, pandemia sia globale sia locale considerando come fu affrontata in modi diversi nei vari paesi del mondo. Basta pensare allo spettacolo teatrale Angels in America di Tony Kushner, al film 120 battiti al minuto del francese Robin Campillo, o alla recente serie TV britannica It’s a Sin.

Un’ulteriore sfida è farlo unendola all’attuale realtà di U = U, undetectable equal untransmissable: è scientificamente provato che, grazie alle terapie seguite regolarmente, quando il virus non è più rilevabile nel sangue diventa non trasmissibile durante rapporti sessuali non protetti dal profilattico.

Positivə – 40 anni di HIV in Italia, documentario di Alessandro Redaelli scritto da Elena Comoglio, Francesco Maddaloni e Ruggero Melis, realizzato dalle case di produzione Peekaboo e UAU, ha vinto la scommessa creando un colorato mosaico con tasselli davvero molto disparati tra loro, che però rendono l’immagine finale particolarmente espressiva.

Intersecando documenti di repertorio con testimonianze personali, il regista e gli autori danno voce a protagonisti del passato e del presente, permettendo a chi questi quattro decenni li ha vissuti di ricordare quanto all’inizio e per lunghissimo tempo essi furono tremendi; a chi adesso è giovane di essere informato di quanto fu complesso fronteggiarli; di cosa significhi oggi convivere con l’HIV, ma anche di come lo stigma sociale ancora esista e resista e vada smantellato definitivamente.

Lo scopo principale di Positivə, infatti, è proprio questo: essere un’arma d’informazione corretta di massa in una nazione in cui le istituzioni pubbliche non parlano più di HIV e AIDS; in cui si pensa ancora che sia “la malattia dei gay” o comunque te la sei andata a cercare; in cui il coming out sierologico fa ancora troppa paura (di perdere affetti, amici, lavoro ecc.) e non ci sono testimonial HIV+ famosi come per esempio lo stilista star di moda Tom Ford; in cui l’ignoranza tiene in piedi la discriminazione.

Il filmato inizia con una gita in macchina verso il mare di quattro persone sotto i 40 anni d’età HIV+, due appartenenti alla comunità LGBT e due eterosessuali. Simone è gay e di professione fa il personal trainer, Daphne è una ragazza transgender che si esibisce come drag queen; Daria è mamma di una bambina di un anno e vive in una grande città, Gabriele è un papà che abita in un piccolo paese di provincia e ha un figlio di tre anni.

A intervallare l’ascolto delle loro conversazioni, l’osservazione della loro quotidianità e le interazioni con partner sierodiscordanti, parenti, amicizie vicine o lontane, medici, ci sono le toccanti e spesso illuminanti memorie sia di personalità celebri sia di attivisti, fili che formano una parte dell’ordito e della trama del tessuto storico-sociale italiano di questa malattia.

Negli anni ’80 e fino all’inizio dei ’90, non ci saranno terapie fino al 1996, si moriva di AIDS e non se ne sapeva il motivo o quasi. Il virus HIV era considerato “classista”, perché le uniche categorie considerate a rischio erano i maschi omosessuali, persone tossicodipendenti e quelle emofiliache. La gente era disinformata, le famiglie si vergognavano e abbandonavano i loro figli alla solitudine.

Nel 1989 si trasmise in TV quello che è diventato il più famoso, inquietante e sempre ricordato spot televisivo nazionale a tema prevenzione AIDS, realizzato dalla Fondazione Pubblicità Progresso. In un video girato in bianco e nero si assiste a una catena di contagi tra persone in varie situazioni, con gli infettati che sono circondati all’improvviso da un alone viola. Una voce fuori campo recitava: “AIDS: se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”.

Passiamo adesso al 2019 con la campagna video di sensibilizzazione “#zerovirale”, presentata da ASA Associazione Solidarietà AIDS, dalla sezione Salute del CIG Centro di Iniziativa Gay – Arcigay Milano e da Milano Checkpoint. Un’anticipazione del principale messaggio presente in Positivə ossia che oggi vivere con l’HIV equivale ad avere una vita normale come chiunque se si ha carica virale zero. Bisogna saperlo, bisogna dirlo.

Nei quattro video che potete vedere in sequenza qui, ci sono scene d’incredibile quotidianità in cui quattro persone sieropositive, tra cui Daphne e Daria, sono riprese in azioni banali come cucinare, stendere i panni, truccarsi, guardare la TV sul divano. Alla fine di un messaggio compare lo slogan della svolta epocale U = U.

foto Bernard Annebicque

Tornando a Positivə – 40 anni di HIV in Italia, sono talmente numerosi gli spunti e le informazioni presenti che mi è impossibile elencare tutto. Mi sono comunque sentito particolarmente in sintonia con quanto dice Oliviero Toscani parlando delle sue campagne promozionali a tema per Benetton: “Sei contro tutto, ma la tua coscienza e a posto”.

Voglio terminare con Loredana Berté che parlando della malattia e della morte di un caro amico, cui dedicherà l’album Carioca del 1985, commenta: “Non è vero che si dimentica, non si dimentica mai”. Non basta ricordare, tutte e tutti dobbiamo diventare “sierocoinvolti”, perché solamente così si rovescerà la narrazione su HIV e AIDS costruendo una memoria collettiva che non contempli più il pensiero di nascondersi o la paura di avere relazioni sociali, affettive o erotiche con chicchessia.

 

Dall’1 (World Aids Day) fino al 5 dicembre 2021 il documentario sarà in esclusiva a noleggio sulla piattaforma in streaming Nexo+ (nexoplus.it) e di seguito girerà per festival