Narrata da Euripide, Sofocle ed Eschilo sotto diversi punti di vista, la tragedia classica di Elettra fu rivisitata anche da Giovanni Testori, e per la prima volta questa riscrittura contemporanea è stata messa in scena dal regista Pasquale Marrazzo. Una spietata lotta per il potere e per la conquista dell’amore travalica così i confini del tempo.

foto: Alessandro Branca

 

Per Euripide è una donna fragile, rosa dai sensi di colpa; per Eschilo (nelle Coefore, secondo tassello dell’Orestea) una ragazzina inerme e disperata; secondo Sofocle, invece, è una vergine posseduta dal demone della vendetta. Elettra, infatti, attende il ritorno del fratello Oreste per far giustizia dopo l’uccisione del padre Agamennone, trucidato dalla madre Clitennestra, ora regina accanto al nuovo sposo Egisto. È quindi comprensibile il suo tormento nell’apprendere la notizia della presunta morte di Oreste e così, soffocando l’angoscia, si propone di prendere il suo posto e portare a compimento l’impresa.

Costretta, lei principessa, a vivere nella reggia come una schiava, sente montare in sé un odio sempre più violento soprattutto nei confronti della madre con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale a differenza della sorella Crisotemi, pavida e rassegnata. Quando, sotto false spoglie, Oreste fa ritorno a Micene con l’amico del cuore Pilade, la troverà sulla tomba del padre dove ordiranno il piano per l’uccisione di Clitennestra per mano di lui che riserverà poi la stessa sorte a Egisto.

Non sappiamo quale delle tre tragedie sia stata rappresentata per prima, forse quella di Euripide. Di certo è con Sofocle che Elettra diventa protagonista assoluta (una figura che potremmo associare a quella di Antigone) grazie al suo odio morboso e ossessivo, l’evocazione dei torti subiti e l’instancabile determinazione di maledire la madre di cui immagina gli amplessi con il nuovo marito e suo patrigno. Non risparmia neppure Oreste, accusandolo per il poco attaccamento ai valori familiari dopo che, affidandolo al pedagogo, lo aveva salvato il giorno dell’uccisione del padre. Per lei la vendetta è semplicemente un dovere.

A Sofocle si è ispirato Giovanni Testori (1923-1993), drammaturgo, scrittore, poeta, saggista e critico d’arte, per la sua Elettra, la cui genesi è davvero particolare. Il titolo, infatti, è stato scelto da Alain Tubas, compagno nella vita e detentore dei diritti delle sue opere, entrando in possesso di una serie di quaderni autografi, uno dei quali, forse un’appendice o approfondimento del suo sdisOrè, era dedicato all’eroina tragica. Lo scrittore aveva infatti deciso di reinventare l’Orestea di cui sdisOrè (“si dice Oreste” tradotto nel dialetto milanese, diretto dall’autore nel 1991 con Franco Branciaroli protagonista) rappresentava il primo approccio.

Come già aveva fatto nella Trilogia degli Scarrozzanti del 1977 (Ambleto, Macbetto, Edipus), Testori trasfigura i modelli originari per farne personaggi del tutto unici che si muovono in contesti geografici completamente diversi. Così, per esempio, dalla reggia degli Atridi l’azione si sposta nella provincia milanese, dove si comunica tramite un pastiche linguistico che mescola dialetto, francese, spagnolo, inglese e latino. Elettra, per intervento di Guglielmo Marconi, diventa Elettrica e la lingua di Egisto diventa “salmistrata”.

Il suo Oreste è dilaniato da un complesso edipico: la volontà di vendetta si alterna a pulsioni sessuali esplicite nei confronti della madre Clitennestra (“vacca sconsacrata” e “pora gaina devastata”) che si era prematuramente rallegrata per la presunta morte del figlio, ma sarà poi uccisa dalla sua spada non a caso conficcata nella vagina. Al pari dell’Edipus, avvertendo l’eco di Freud, incesto e parricidio sono presentati come scelte consapevoli e volontarie, il mito è rivisitato in chiave grottesca o parodistica con la grande capacità di accostare l’alto al basso per evidenziarne la distanza, ma nel contempo affermare la necessità di conservarne il valore assoluto. Qui l’atto sessuale diventa il vero protagonista, ed Elettra evoca il possente membro virile del fratello mentre Egisto, terrorizzato per la sorte che lo attende, diventa impotente.

Nell’Elettra Oreste è invece dichiaratamente omosessuale e s’intrattiene in amplessi multipli e in gaudenti orge con aitanti giovanotti e biondi efebi. La cosa però non turba né la madre né la sorella che si contendono disperatamente il suo amore in un vortice di ambiguità e contraddizioni, soprattutto da parte di Clitennestra. Nella pièce muta anche lo svolgersi della vicenda: a uccidere Egisto sarà infatti la stessa Elettra e nel finale anche la sorte che toccherà a Oreste sarà assai tragica. Il vero fulcro è però la spietata lotta per il potere tra madre e figlia, da sempre nemiche e desiderose di regnare a Micene, usando mariti e fratelli come meri strumenti, in una violenta contesa che sembra possa sfociare da un momento all’altro nel sangue.

A differenza dei lavori già citati, qui Testori scrive – con innumerevoli correzioni, cancellazioni e modifiche del testo – in italiano e affida a un poeta/scrivano il suo alter ego a cui le due donne si rivolgono affinchè possa dare loro “nuova carne e nuove parole”, fin quasi a confondersi l’una nell’altra, legate da un identico destino maledetto.

Il regista Pasquale Marrazzo ha avuto il privilegio di poter lavorare sull’autentico quaderno di Testori che Tubas gli ha affidato. Nella sua messa in scena evidenzia giustamente la componente psicoanalitica e spinge all’estremo la crudeltà e l’abiezione dei personaggi che non temono di palesare gli abissi più segreti e indicibili dell’anima. Con una felice scelta di regia assegna a un’attrice (l’intensa Alessandra Salamida) i ruoli di Oreste ed Egisto, asciugando l’azione e dando risalto al serrato confronto tra Elettra e Clitennestra in un susseguirsi di invettive e maledizioni, alternandole a strategiche, ipocrite alleanze. Non c’è scampo per la madre che ha tramato per uccidere il figlio mandandogli tra le braccia un avvenente sicario il quale fallirà nell’intento firmando così la sua condanna a morte, ma non c’è pace né felicità neppure per Elettra, forse regina però di nuovo disperatamente sola.

foto Saul Stucchi

In perfetta sintonia e gioco di squadra, a duellare verbalmente senza dimenticare una sensuale fisicità troviamo l’Elettra di Emanuela Villagrossi, ora sommessa nei dolenti ricordi ora impetuosa nei propositi di vendetta e la Clitennestra di Rossana Gay, seduttiva, impudica e talvolta necessariamente scomposta. Per tutte le tre attici una performance eccellente.

La scena astratta composta da quadrati e parallelepipedi di legno che s’intersecano sospesi nel vuoto e i costumi candidi di tessuto grezzo portano la firma dello stesso Marrazzo. Le musiche originali e suggestive sono di Teo Teardo, ma a sorpresa non mancano le incursioni della voce di Demis Roussos con gli Aphrodite’s Child in Rain and Tears e di Elvis Presley con Can’t Help Falling In Love; luci d’atmosfera alternate a momenti di buio di Marco Meola.

A Testori, intellettuale fuori canone e mai amato dall’ambiente letterario, preferendo il mondo degli artisti, dei carcerati, dei disperati, degli ultimi e dei diversi, questa Elettra sarebbe sicuramente piaciuta. Al teatro Litta di Milano sino al 14 novembre.