Esce finalmente nelle sale Queer, l’ultimo film di Luca Guadagnino, liberamente tratto dall’omonimo romanzo semi autobiografico di William S. Burroughs. Un’irrisolta storia d’amore al maschile unita alla ricerca di conseguire facoltà telepatiche per capire se quello dell’amato è amore vero.
È uno di quei film di cui si è molto discusso ancora prima di vederlo, almeno qui in Italia. Queer, ultima opera del regista Luca Guadagnino, esce il 17 aprile distribuito da Lucky Red, in ritardo rispetto al resto dell’Europa, dopo l’anteprima all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia la scorsa estate. Guadagnino ha dichiarato che sin da quando aveva 17 anni era rimasto affascinato dal romanzo di William S. Burroughs (1914-1997) da cui Queer è tratto. Il protagonista è William Lee, un chiaro alter ego dell’autore, di cui la dipendenza da ogni sorta di oppiacei era già stata narrata in Junky (La scimmia sulla spalla), il suo primo libro.
Burroughs, uno degli esponenti della cosiddetta beat generation insieme ad Allen Ginsberg, con cui ebbe una lunga relazione, e Jack Kerouac, non aveva mai nascosto la sua omosessualità sin dall’adolescenza, nonostante due successivi matrimoni. Dopo studi in prestigiose università americane ed europee, era tornato negli Stati Uniti per dedicarsi alla carriera di scrittore, mantenendosi con umili lavori, talvolta decisamente poco leciti.
Trasferitosi nel 1943 a New York, aveva sposato l’amica Joan Vollmer con cui condivideva la tossicodipendenza e con lei, ricercato dalla polizia, era partito per Città del Messico dove aveva scritto Junky e dove è ambientato anche Queer, scritto tra il 1951 e il 1955 però pubblicato soltanto nel 1985 (da noi prima col titolo Diverso, poi Checca nel 1998 e infine con quello originale da Adelphi nel 2013), segno di quanto avesse tentato di allontanare da sé la testimonianza di quei demoni che lo attanagliavano.
Negli anni Cinquanta la scelta del Messico era per molti ricchi gay americani una destinazione favorita, vista la tolleranza del Paese sia nei riguardi della sessualità che del mercato delle droghe, oltre naturalmente alla disponibilità, prezzolata o meno, di avvenenti giovanotti locali. All’inizio del romanzo ecco dunque Lee, uomo di mezz’età quasi perennemente con la sigaretta tra le labbra e alticcio al fine di contrastare con l’alcol le crisi d’astinenza dalla droga, aggirarsi per le vie della capitale in cerca di compagnia. Si tratta in genere di semplici avventure che non lasciano traccia, da raccontare nel bar al sodale Joe (il quale ha un debole per i tipi che lo rapinano) che come lui trascorre le giornate tra birra, tequila e sesso occasionale.
Questa sorta di smania erotica è un contraltare della sua mancata accettazione dell’omosessualità, uno status nel quale si sente prigioniero e a disagio con il resto dell’umanità, a cui reagisce con l’anarchia esistenziale: niente progetti per il futuro né impegni fissi, tantomeno legami o aspettative dal prossimo. Tutto cambia quando William s’imbatte nel giovane, seduttivo e biondo Eugene Allerton del quale s’innamora a prima vista.
Non sarà però una conquista facile: il ragazzo, educato, perbene e sobriamente elegante, pur frequentatore assiduo di un bar gay friendly è all’apparenza eterosessuale e quasi sempre in compagnia di un’altrettanta misteriosa fanciulla con cui condivide il gioco degli scacchi. Non sappiamo quasi nulla del suo passato e come sia giunto laggiù. Sulle prime non sembra affatto interessato al corteggiamento di Lee quanto solo alla sua conversazione e a sfidarlo alla scacchiera, sconfiggendolo non solo al gioco. Con la sua ambiguità sessuale lo tiene, infatti, in perenne tensione emotiva ed erotica.
Accettato l’invito nella sua camera d’albergo, dopo alcuni bicchieri di cognac il giovanotto gli concede finalmente le sue grazie, fatte oggetto di un prolungato rapporto orale. Il maturo innamorato pensa di aver espugnato il suo oggetto del desiderio ma si sbaglia, perché Eugene alterna giorni d’indifferenza e distacco ad altri di complicità e disponibilità del suo corpo voluttuoso e sensuale, arrivando sino ad acconsentire alla penetrazione.
Passa il tempo e William si rende conto che il ragazzo si sta allontanando da lui, forse con l’intenzione di lasciare la città. Cresce la paura di perderlo, che si manifesta anche nei sogni: novello Guglielmo Tell, posa un bicchiere sulla sua testa e cerca di colpirlo con una pistola ma manca il bersaglio e lo uccide. Questo è esattamente quanto accadde nel 1951 a Burroughs e alla moglie Joan, e solo grazie alla corruzione imperante in Messico lo scrittore riuscì a evitare la condanna per omicidio e il carcere.

Daniel Craig – ph. Yannis Drakoulidis
Lee gioca allora la sua ultima carta e gli propone di seguirlo in un viaggio nella foresta amazzonica alla ricerca dello yagé o ayahuasca, una radice dalle proprietà psicoattive che si pensa siano capaci di stimolare nell’uomo la facoltà di controllare telepaticamente gli altri. Eugene accetta a patto che sia lui a decidere se e quando si lascerà amare. La spedizione è colma di pericoli e nel mezzo della jungla ecuadoriana i due riescono a rintracciare la dottoressa Cotter, una sorta di sciamana occidentale che studia lo yagé e li accontenta. Poco dopo aver assunto il decotto a base d’erba sono in pieno trip allucinatorio, le visioni si susseguono, alcune assai macabre come quella di vomitare il proprio cuore, e i loro corpi si fondono.
Sembra che l’obiettivo della reciproca telepatia sia raggiunto quando Eugene afferma di non essere queer ma incorporeo, la stessa cosa che Lee aveva detto di sé in un suo precedente sogno. Questa comunione però non sancirà il formarsi di una coppia e passati due anni Lee torna da solo a Città del Messico e, chieste notizie di Allerton a Joe, apprende che l’amato è partito per un viaggio in Sud America con un colonnello a cui avrebbe fatto da guida. All’uomo non resta che sognarlo e vederlo sdraiato nella camera d’hotel accanto alla sua.

Daniel Craig e Drew Starkey – ph. Yannis Drakoulidis
In piena sintonia con lo sceneggiatore Justin Kuritzkes (lo stesso di Challengers) e sposando l’idea che la parola “queer” nell’immaginario di Burroughs non corrisponda a quello che è oggi per la comunità LGBTQA (e già c’era una grossa distanza tra dire queer negli anni ’50 quando si svolge la storia e dirlo negli anni ’80 quando il libro fu pubblicato), Guadagnino si è immerso empaticamente nelle pagine dello scrittore e ha realizzato un film che al montaggio finale durava oltre tre ore, poi ridotto a poco più di due.
“Queer rappresenta – afferma il regista – quel modo di esistere che è incurante dell’essere inclusi e dell’essere più vicini possibile al centro. Il mio film mi sembra la visualizzazione cinetico-pittorica di uno stato d’animo che conosco e comprendo e credo ci appartenga. Uno stato d’animo molto doloroso o addirittura terminale, cioè l’idea che essere umani significa essere, alla fine di tutto, soli. Il libro mi ha trasformato per sempre, per questo volevo essere fedele al passaggio della storia sul grande schermo. Spero che alla fine il pubblico abbia idea del sé, di chi amiamo quando siamo soli, di chi stiamo cercando, a prescindere che siano uomini o donne.”

Daniel Craig e Drew Starkey – ph. Yannis Drakoulidis
Forse Queer non è il film più bello tra quelli girati da Guadagnino, ma sicuramente è il più onesto e sentito e colpisce il suo talento visionario, benissimo supportato dalla scenografia di Stefano Baisi e dalla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom. Girato negli studi di Cinecittà a Roma, abbiamo apprezzato la ricostruzione di un Messico molto più immaginato che realistico, caratterizzato da accesi tramonti arancioni e violetti, mattine di luce abbacinante, interni disadorni o miseri di bar e alberghi, dove il senso solitudine è manifesto. Avvincente, a nostro avviso, la colonna sonora, affidata a Trent Reznor e Atticus Ross (dei Nine Inch Nails, N.d.R.) che anziché rifarsi alle musiche d’epoca spaziano dagli anni Ottanta con i Nirvana e Sinéad O’Connor a quelli 2000 con il Prince di Musicology.
Diviso in tre atti e un prologo, Queer fonde due versanti: una controversa storia d’amore certo non romantica e casta come quella di Chiamami con il tuo nome (che ha fatto di Timothée Chalamet una star) e la ricerca verso la conquista di facoltà paranormali per carpire l’anima o capire l’animo altrui. Sarebbe però un errore, nonostante i nudi frontali e i focosi amplessi gay quasi del tutto espliciti, ritenerlo un film sul sesso e la carnalità. Ad onta di materassi macchiati di fluidi, sangue, vomito e dissenteria, va piuttosto inteso come una riflessione sull’angoscia della relazione e la paura dell’altro.

Daniel Craig e Luca Guadagnino – ph. Yannis Drakoulidis
Il punto di forza, costante nell’opera di Guadagnino, è la scelta del cast, dal derubato ma appagato poeta Joe di Jason Schwartzman, all’irriconoscibile Leslie Manville come dottoressa Cotter, guru psichedelica, e la rivelazione Drew Starkey, un Eugene ombroso e misterioso, bellissimo e sfuggente. Straordinaria la prova attoriale di Daniel Craig che cancella definitivamente il suo James Bond. Con William Lee abbraccia tutte le sfumature del personaggio: il poco valore umano che si attribuisce e l’infelicità che lo spingono a stordirsi di continuo; il sentimento d’amore che gli era dapprima sconosciuto per cui si umilia sino a comportarsi da buffone e farsi compatire; l’ardore di amante appassionato.
Daniel Craig avrebbe per noi ampiamente meritato di figurare nelle nomination per il miglior attore dei premi Oscar 2025, ma evidentemente per la nota ipocrisia hollywoodiana Queer non è entrato in alcuna categoria, forse considerato troppo “trasgressivo”. Ora attendiamo la prossima sfida di Guadagnino a cui va riconosciuta la versatilità e il coraggio di mutare sempre genere: l’adattamento di I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, romanzo di Thomas Mann pubblicato nel 1901.