Primo grande successo teatrale di Tennessee Williams e già celebre film degli anni Cinquanta con Paul Newman ed Elizabeth Taylor, La gatta sul tetto che scotta è ora in scena con la regia di Leonardo Lidi che solleva il velo d’ipocrisia calato allora da Hollywood e Broadway sulle storie in cui era l’omosessualità la ragione dell’ambiguità di molti personaggi.

 

Che parlare di omosessualità a Hollywood fino agli anni Settanta fosse un tabù da non infrangere (grazie alla tagliola del famigerato codice Hays) è ben noto: non si contano i film dove relazioni gay e lesbiche venivano contrabbandate per “amicizie virili” o “affettuosità tra amiche”. Uno dei più eclatanti è La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof), diretto da Richard Brooks nel 1958, tratto dall’omonima pièce di Tennessee Williams (1911-1983) composta tre anni prima, interpretato da Paul Newman ed Elisabeth Taylor.

Sappiamo quanto, seppur non sempre esplicitate, le pulsioni omosessuali siano presenti nei suoi personaggi, per esempio Sebastian in Improvvisamente l’estate scorsa (nel film ci pensò lo sceneggiatore Gore Vidal ad annacquare l’attrazione del giovanotto per i maschi che purtroppo gli costerà la vita), al pari di quanto Williams proietti se stesso su alcuni dei suoi ritratti femminili come la Blanche di Un tram chiamato desiderio o l’Amanda di Zoo di vetro.

A cimentarsi proprio con quest’ultimo lavoro era stato Leonardo Lidi in una delle sue prime messe in scena, dove la famiglia composta dall’oppressiva madre Amanda, la figlia claudicante Laura e l’insofferente fratello Tom sogna in modi diversi di evadere da una realtà mal tollerata. Il regista aveva puntato su un’ambientazione circense e una modalità di recitazione che avevano diviso pubblico e critici, fatta salva l’interpretazione di Tindaro Granata, Mariangela Granelli e Anahi Traversi. A distanza di qualche anno, reduce dalla pregevole Trilogia Cechov (Il gabbiano, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi), Lidi torna su Williams proprio con La gatta sultetto che scotta, primo tassello del progetto di una Trilogia sul drammaturgo americano.   

“Mi sorprende pensare – afferma il regista sottolineando il filo che lega i due autori – che l’ultimo testo di Williams, The Notebook of Trigorin, sia una riscrittura del Gabbiano di Cechov: una vera e propria dedica di un ammiratore al suo idolo da ragazzo. Questo amore, questa continuità, ha creato nella drammaturgia del secolo scorso un vero e proprio filo rosso che parte da Cechov, passa per Williams e si conclude con alcuni film di Woody Allen. La società è raccontata tramite la famiglia e le sue contraddizioni, le tonnellate di storie d’amore, le battute che tornano e si rincorrono tra un autore e l’altro.”

La vicenda ruota intorno alla coppia formata da Maggie (soprannominata la Gatta) e Brick che è da tempo in crisi: non fanno più sesso da quando lui ha cominciato a bere in un lento processo di autodistruzione, iniziato in concomitanza con il suicidio dell’amico e sodale Skipper. Sta quindi definitivamente tramontando il sogno di Maggie di avere un figlio, agognato anche dal suocero, Big Daddy/il papà e da Big Mama/la mamma, mentre Gooper, il fratello di Brick, e la moglie Mae sono genitori di ben cinque bambini, oltre a un sesto in arrivo. Li incontriamo mentre sono tutti ospiti nella casa di famiglia per festeggiare il sessantacinquesimo compleanno del padre, un vero patriarca tirannico e sboccato che, un tempo povero, è diventato proprietario di una delle più grandi piantagioni del Mississippi.

Valentina Picello e Fausto Cabra – ph. Luigi De Palma

L’uomo non sa di essere malato di cancro in fase terminale, perché i congiunti glielo hanno nascosto, lasciando, tranne Maggie, che Gooper, fagocitato da Mae, inizi le manovre per impossessarsi di tutti i beni paterni, favorito dall’acquiescenza di Brick che però è il figlio prediletto dei genitori. Quest’ultimo, ex giocatore di football insieme a Skipper e poi commentatore sportivo ora disoccupato, si è slogato una caviglia tentando di notte, in preda all’alcol, di saltare alcuni ostacoli in un campo sportivo e adesso cammina aiutandosi con le stampelle.

Scopriamo man mano quanto veniva sottaciuto da lui e da Maggie: lei, gelosa del rapporto tra il marito e Skipper che andava ben oltre l’amicizia e preoccupata per le voci maliziose che si andavano diffondendo sui due, lo aveva maldestramente sedotto (scoprendolo non molto appassionato sotto le lenzuola) per poi rivelarlo a Brick in modo da farglielo odiare e riuscire a spezzare definitivamente quel legame. Maggie dice di sentirsi come “una gatta su un tetto che scotta”, decisa a non cadere giù: ha, infatti, conquistato con fatica una posizione sociale e non vuole tornare nelle sofferenze della povertà.

Skipper si era subito vergognato di quel tentativo di certificare che non fosse gay e nella sua ultima telefonata confessa a Brick di essere innamorato di lui. L’altro comprende di nutrire lo stesso sentimento che forse non aveva neppure mai ammesso a se stesso e tronca la comunicazione. Il giorno dopo il giovane uomo si uccide e Brick, gravato dal senso di colpa, in altra modalità decide altresì di smettere di vivere. Maggie è ben conscia di tutto questo ma non si rassegna a perderlo per sempre, stessa cosa per il padre che non sopporta di vederlo in quello stato e inizia con lui un alterco che presto degenera quando Big Daddy ammette di aver avuto dubbi sull’eterosessualità del figlio e questi gli rivela brutalmente la verità sulla sua malattia.

Riccardo Micheletti, Orietta Notari e Fausto Cabra – ph. Luigi De Palma

Dapprima incredulo ma poi consapevole, il capofamiglia liquida brutalmente i subdoli tentativi di Gooper di circuirlo, rivaluta la moglie, sempre trattata (e vilipesa) come una sua sottoposta, e decide di nominare Brick suo unico erede. Maggie, per ricambiare e donare un poco di felicità al suocero, davanti a tutti annuncia, sapendo di mentire, di aspettare un bambino, inutilmente smentita dalla cognata che in quei giorni spiava la coppia, rivelando che i coniugi dormivano in camere separate. In ultimo tentativo di riconciliazione, la Gatta chiede un bacio a Brick, illudendosi sia il preludio di un risvegliato interesse sessuale del marito.

Posto che Williams, in questi mesi molto rivisitato, non ha lo spessore metaforico e il pregio di poter attraversare il tempo di Cechov però è cantore di un preciso ambiente sociale in un contesto storico ben determinato, dal regista ci aspettavamo un approccio del tutto anti naturalistico. Così è stato, a cominciare dalla suggestiva scena (opera, al pari delle luci fisse e abbaglianti, di Nicolas Bovey), spoglia e dominata da lastre bianco marmo che fungono da pareti claustrofobiche all’interno delle quali i personaggi si muovono come in una gabbia, non a caso citata da Maggie.

Come si evince da questo riassunto, il testo teatrale è ben diverso dal film che non poteva neppure alludere all’omosessualità, seppur latente. “Lo stesso Williams – continua Lidi – furibondo con i suoi contemporanei che l’avevano messo in scena e portato sullo schermo tradendo totalmente il messaggio e la natura della pièce, decise di riscriverlo in una versione incontrastabile, cruda, piena di volgarità e accuse, per dipingere il ridicolo presepe vivente che lo feriva tanto. I suoi testi hanno sempre all’interno una provocazione: lui utilizza il ridicolo (e la battuta finale di Brick in risposta alla richiesta della moglie è proprio da morir dal ridere…) per raccontare la tradizionale famiglia del Sud (una lente d’ingrandimento della società), descrivendone l’incapacità di avanzare, pronta a nascondere tutta la polvere del perbenismo occidentale sotto il tappeto.”

Preso atto della lodevole volontà di dare giustizia a Williams, numerose sono le invenzioni registiche a effetto di Lidi, la prima è quella di mettere in scena il fantasma di Skipper (assente nel testo) che ha l’incessante compito di portare a Brick innumerevoli bottiglie di vetro bianco che vengono poi disseminate intorno, quasi a formare un labirinto dove perdersi dopo essersi storditi con il liquore. Gli sguardi languidi, le strette di mano e le carezze tra i due testimoniamo il sentimento che li univa, seppur mai verbalizzato o solo troppo tardi.

Nicola Pannelli e Fausto Cabra – ph. Luigi De Palma

È poi molto ben disegnato il contesto sociale (il regista l’ha definita una famiglia “carnivora”) in cui si muovono i personaggi, a cominciare dal padre, un arricchito incolto e grezzo, dispotico e arrogante, e dalla madre, ossessionata dall’acquistare e accumulare oggetti poi dimenticati. Gooper e Mae sono mossi dall’avidità e agiscono in nome dell’ipocrisia, una chiave di lettura che la regia sottolinea ed estende a gran parte di quel nucleo familiare.

Una caratteristica del lavoro di Leonardo Lidi è quella di affidarsi, con poche eccezioni, al medesimo gruppo di attori con cui ha costituito una sorta di ensemble. Valentina Picello è una new entry, davvero eccellente nel dar corpo e voce a Maggie, ironica, tagliente ma anche appassionata e indomita nel voler riconquistare il cuore e le pulsioni erotiche del marito. Fausto Cabra spariglia un po’ gli schemi dell’immaginario in cui collochiamo Brick: è un uomo fisicamente e mentalmente provato, efficace sia negli eloquenti silenzi che nell’impeto dialettico che lo oppone al padre con il quale non ha mai avuto empatia e vicinanza.

Leonardo Lidi

Ottima performance è quella di Nicola Pannelli (pater familias prima tracotante e poi consapevole dei propri limiti) e di Orietta Notari (madre chioccia e troppo remissiva). Funzionali nel ruolo dei “cattivi” Giordano Agrusta e Giuliana Vigogna come Gooper e Mae. Nel ruolo di Skipper c’è Riccardo Micheletti, muto ma dalla prorompente fisicità seminuda, poi, un po’ incongruamente, vestito da medico con il viso coperto dal passamontagna nero. Il reverendo pavido e opportunista è Nicolò Tommassini e Greta Petronillo la bambina, figlia di Gooper e Mae, che apre la rappresentazione cantando soavemente Fly Me to the Moon, evergreen di Frank Sinatra e Count Basie.

I costumi, firmati da Aurora Damanti, volutamente appariscenti e un po’ volgari dei padroni di casa (cravatta rossa alla Trump per Big Daddy)  contrastano con l’essenzialità della sottoveste di raso di Picello e l’intimo bianco di Brick e Skipper. Il suono, denso di rumori di tuono, fuochi d’artificio e rintocchi d’orologio, è a cura di Claudio Tortorici. Terminate domenica 25 le repliche al teatro Vascello di Roma, La Gatta sul tetto che scotta, valorizzata dalla nuova e innovativa traduzione di Monica Capuani, produzione del Teatro Stabile di Torino (dove è stata applaudita al debutto al Carignano) insieme allo Stabile del Veneto, andrà in tournée la prossima stagione, toccando anche Milano.