Forte di un cartellone che comprende le più importanti discipline artistiche, il Campania Teatro Festival si conferma una delle più attrattive rassegne estive. In questa edizione abbiamo visto, tra gli altri, due spettacoli dedicati a Pier Paolo Pasolini e un’originale rivisitazione della tragedia greca con interpreti transessuali.

foto: Le troiane, la guerra e i maschi – © Giulia Zuccheri

 

Confermando le linee guida che caratterizzano la sua direzione artistica, Ruggero Cappuccio dà spazio alla creatività degli artisti campani anche esordienti; ospita nuove produzioni di consolidate realtà nazionali (spesso in prima assoluta) molte delle quali ritroveremo nei programmi della prossima stagione; chiama star internazionali dall’indiscusso carisma. L’accattivante politica dei prezzi dei biglietti, inoltre, consente a un pubblico stratificato e a moltissimi giovani di accedere a spettacoli, reading e concerti, facendo spesso registrare il sold out.

Suddiviso in sezioni (teatro italiano e internazionale, osservatorio, letteratura, sportopera, musica, danza, cinema e progetti speciali ) che si sono avvicendate per un intero mese, il Festival, allestito nei suggestivi spazi all’aperto di Capodimonte e nelle sale di Napoli e della Regione, offre una panoramica a 360 gradi del fermento culturale che, nonostante pandemia, guerra e crisi economica, anima il paese e in particolare il nostro Sud.

L’inaugurazione è stata affidata a un volto e una voce che di Napoli è un simbolo: l’attrice Lina Sastri che ha proposto La mancanza, un suo testo/sceneggiatura che prenderà poi la forma di un cortometraggio, dedicato al fratello scomparso due anni fa a causa del Covid. Agli struggenti ricordi di una persona cara che amava la vita si accompagnano le musiche di Mozart e Massenet al violino e pianoforte.

Dopo di lei si sono avvicendati, tra i molti altri, Vinicio Marchioni (presente anche con un primo studio su Illusioni del drammaturgo russo Ivan Vyrypaev) nel docufilm Autobus 2857, diretto da Nadia Baldi, che ricorda l’audace gesto di Rosa Parks quando nell’Alabama del 1955, ribellandosi alla segregazione razziale, non volle lasciare il posto a sedere destinato solo ai bianchi. Elio delle Storie Tese si cimenta con il repertorio e i testi di Enzo Jannacci in Ci vuole orecchio. Filippo Timi, qui autore e interprete, ha proposto il già rodato Cabaret delle piccole cose, mentre Gioele Dix cura la regia di La giovinezza è sopravvalutata con Paolo Hendel.

La prosa cede al balletto ed ecco Danse Macabre, creazione del coreografo, regista e scenografo svizzero Martin Zimmermann dove, spingendo il tragico sino ai limiti della commedia con l’intento di superarlo, ci mostra tre personaggi grotteschi e disadattati che per un caso del destino si ritrovano nello stesso luogo nello stesso momento.

Daniel Auteil – ph. Stéphane Kerrad

Restiamo nell’ambito delle ospitalità internazionali e troviamo Daniel Auteuil, protagonista di film tuttora impressi nella memoria, nell’insolita veste di cantante e fine dicitore in Déjeuner en l’Air, spettacolo musicale (è accompagnato da chitarra e pianoforte) in cui ci fa scoprire l’opera di Paul-Jean Toulet, poeta dei primi del Novecento, armonizzandola con i versi di altri celebri autori quali Rimbaud e Apollinaire. Dopo qualche giorno si è palesato il suo compatriota (ma americano di nascita) Christophe Lambert, protagonista di Smith & Wesson, scritto e adattato da Alessandro Baricco. È la storia di due personaggi che s’incontrano ai piedi delle cascate del Niagara (un redattore di statistiche meteorologiche e un incaricato di recuperare i corpi inghiottiti dalle rapide) per poi venir coinvolti da una giornalista in un folle progetto.

Napoli torna prepotentemente in scena con Eduardo Scarpetta e il suo ormai classico della comicità Il medico dei pazzi, di cui Claudio Di Palma cura la regia. Il grezzo provinciale Sciosciammocca piomba nella grande città e lo stile di vita che trova gli pare frutto di pura follia. Da Piedigrotta ci spostiamo a Vienna dove, come tutte le pièce di Thomas Bernhard, è ambientato Il soccombente, primo capitolo di una Trilogia sulle Arti, diretto da Federico Tiezzi con Sandro Lombardi che dello stesso autore l’anno scorso al festival avevano presentato Antichi maestri. Tre promettenti pianisti decidono di seguire il corso di un famoso maestro di musica: uno di questi è il genio della tastiera Glenn Gould.

Il sogno di una cosa – ph. Salvatore Pastore

Quest’anno cade il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini e davvero molti sono i lavori prodotti per la scena, non solo quelli scritti appositamente per il teatro, ma anche quelli tratti dalla sua opera in prosa e dalle sceneggiature dei film da lui diretti. Il sogno di una cosa è un romanzo giovanile scritto tra il 1949 e il ’50 però pubblicato solo nel ’62, collocato nel suo natio Friuli, dove all’epoca insegnava in una scuola elementare. Elio Germano lo ha adattato per presentarlo in una veste a metà tra la lettura e la mise-en-espace, chiamando accanto a lui il musicista Theo Teardo con cui condivide da tempo un originale percorso artistico.

Al centro della vicenda c’è l’amicizia (un’attrazione e ammirazione uno per l’altro quasi fatali) tra Nini, Milio ed Eligio che s’incontrano per la prima volta alla sagra di Pasqua del loro paese. Li accumuna l’amore per la fisarmonica, la musica, il ballo e il vino. Vittime, come tanti altri conterranei, dell’estrema povertà del primo dopoguerra, per tentare di sottrarvisi decidono di emigrare. La scelta di Milio cade sulla Svizzera dove ben presto patirà l’emarginazione e il razzismo dei locali e, capendo di non poter tollerare la loro rigidità mentale e umana, deciderà di tornare in patria.

Eligio e Nini si dirigono, invece, verso la Jugoslavia che raggiungono in maniera rocambolesca, attratti dal miraggio di nuova vita all’insegna dagli ideali comunisti sposati dal Maresciallo Tito. Si trovano, invece, a fare i conti con la dura realtà di un paese allo stremo, lacerato dalle divisioni tra lo stesso Tito e Stalin di cui gli emigrati italiani diventano il capro espiatorio. Rientrati anche loro in Friuli, si riuniscono a Milio e insieme prendono parte alle lotte dei contadini affinché venga rispettato il cosiddetto Lodo De Gasperi per una più equa distribuzione delle terre.

“Ora ci si preoccupa per i popoli balcanici che vengono qui” riflette Germano “ma allora eravamo noi italiani a spostarci verso le loro terre, coltivando grandi speranze spesso deluse, come racconta Pasolini che cita Marx, ma osserva la realtà con notevole pragmatismo, vista la fine che i tre giovani fanno una volta rientrati in Italia: uno morto sul lavoro, un altro minato nella salute a causa della permanenza nelle cave, il terzo catturato dall’entusiasmo per la bella vita agli albori del boom economico. Tutti argomenti molto cari allo scrittore su cui tornerà successivamente con maggiore approfondimento e maturità.”

L’attore, accompagnato dalle suggestioni musicali di Teardo e da immagini e spezzoni d’epoca di toccante drammaticità, nello splendido Cortile della Reggia di Capodimonte, ci porta indietro nel tempo, in un’Italia che troppi hanno dimenticato, dove valori come l’amicizia, la sete di giustizia e la coscienza civile non erano ancora contaminati dallo sfrenato consumismo e dall’omologazione.

Un altro progetto vede al centro il poeta di Casarsa, firmato da Mariano Lamberti (anche regista) e Riccardo Pechini, pur non riguardando lui in prima persona bensì le donne che a diverso titolo gli sono state vicino. In Razza sacra (al teatro Colosseo di Baiano, riaperto dopo 40 anni, e dall’1 al 4 dicembre all’Off Off di Roma) ritroviamo Laura Betti, Silvana Mangano, Maria Callas, Oriana Fallaci e la madre Susanna (interpretate da Elena Arvigo e Caterina Gramaglia insieme a Pasquale Di Filippo, volto e voce dello scrittore) in un’atmosfera noir tra echi kafkiani, ricordi e omicidi. Queste figure iconiche sono le rappresentanti di una “razza sacra” che si è ribellata ai ruoli subordinati imposti dalla società. Pasolini, alla ricerca di una perduta identità, si riconosce in loro, tra sogno e ricordo, dai campi del Friuli agli slum di New York.

La Macchia – ph. Salvatore Pastore

Dalla storia del cinema e della letteratura c’immergiamo poi nella realtà d’oggi virata tra il surreale e il grottesco. Fabio Pisano con La macchia, di cui è autore e firma anche la regia, ci racconta di un giovanotto (Michelangelo Dalisi, conosciuto sia per le serie TV che al cinema con Martone e Sorrentino) che nel suo appartamento al piano terra ha una perdita sul soffitto del bagno. La cosa più ragionevole sembra quella di salire le scale e informare la coppia di vicini (Francesca Borriero e Emanuele Valenti) che abitano sopra di lui, però mal gliene incoglie perché viene trascinato in una spirale di equivoci e incomprensioni che lasciano il suo problema irrisolto. La scrittura ricorda in positivo il teatro dell’assurdo di Beckett, Ionesco e del sommo Pinter, supportata da un’eccellente performance del cast.

Si riparla di emigrazione, questa volta al contrario nel Giornale parlato: informazione in scena, a cura della firma del Corriere della Sera Livia Grossi che documenta e commenta, accompagnata dalla chitarra di Andrea Labanca, un suo reportage filmato dal Senegal dove ha incontrato e intervistato un certo numero di italiani che, per ragioni diverse, vi si sono trasferiti da anni, e anche alcuni senegalesi che, dopo esser emigrati nel nostro paese per migliorare la loro vita, hanno deciso di tornare in patria, spinti dalla crisi economica o dalla nostalgia per le loro tradizioni.

Le Troiane – ph. Salvatore Pastore

Da anni la regista e attrice Marcela Serli con la sua compagnia Atopos si occupa di tematiche di genere ben prima che salissero agli onori della cronaca, accogliendo nel suo ensemble anche attrici e attori transgender o non binari. Questa volta il suo sguardo di drammaturga si è posato sulla tragedia greca e in Le troiane, la guerra e i maschi mette sotto la lente il trattamento stereotipato che Euripide riserva a quel manipolo di straziati personaggi femminili dopo che la loro città è stata distrutta, hanno perso figli o mariti e le aspetta un oscuro futuro.

“Siamo alla fine di una guerra” spiega Marcela “si contano i morti e si assiste all’ultimo atto della disumanizzazione. Da una parte ci sono il combattente, l’uomo guerriero, il messaggero compassionevole. Dall’altra Atena, la stratega e guerriera; la volubile Ecuba, la madre, la regina ma anche la vecchia triste e finita; Cassandra, la profetessa eppure pazza e strega; Elena, la bellezza e l’amore però puttana; Andromaca, la moglie, madre e donna di casa sottomessa; infine gli dei e il loro gioco. Mentre Troia brucia, le sue donne, di fronte al mare aspettano di conoscere il loro destino: alcune diventeranno schiave degli eroi greci, altre saranno assegnate a sorte. Quando abbiamo deciso di fare questo spettacolo avevamo già pronto un discorso femminista circa gli stereotipi sulle donne nelle tragedie, poi è arrivata la guerra e allora mettere in scena Le troiane è diventato un doppio atto di coraggio: parlare di guerra e farlo con attrici i cui corpi sfuggono ai canoni della società occidentale. Il nostro è un tentativo tragicomico per riflettere sul potere e sull’oppressione patriarcale.”

La vena ironica si scopre sin dal prologo quando un’attrice en travesti impersona un tedioso cattedratico che sparge a piene mani pregiudizi e vetusti cliché sulle donne, poi la vicenda prende forma, per un verso rispettandone la scansione originale e per l’altro, con estro creativo e visuale, rimandando al maschilismo che continua a discriminare il genere femminile e non solo.

“Come afferma la teorica femminista Monique Wittig” continua Marcela “le donne sono il genere perché purtroppo gli uomini sono il generale. Nonostante ciò, la società patriarcale oggi ha come vittime gli uomini. Noi sappiamo che le vittime evidenti sono le donne e le persone che esprimono il femminile (donne, uomini, transessuali o transgender), ma i primi a subire una costrizione in questa società sono proprio gli uomini. L’uomo, costretto a perseguire un modello di onnipotenza, costruisce un falso da sé, un archetipo, un leader falsato. Nell’apertura al femminile che è propria di ogni essere umano, invece, si sviluppa la capacità di comprendere e accogliere il diverso che è colui che nasce da sé ma che è Altro. Le troiane, la guerra e i maschi farà un’ipotesi, si chiederà quale direzione avrebbero potuto prendere queste donne se solo avessero avuto una possibilità e quale avrebbero potuto prendere gli uomini se avessero avuto gli occhi per guardare e accogliere in sé l’alterità.”

Lo spettacolo, accolto con calore dal folto pubblico, deve la sua riuscita anche all’eccellente gioco di squadra di tutte le interpreti, capitanate dalla stessa Serli, insieme a Eva Robin’s, dolente Ecuba, Noemi Bresciani, Ana Facchini, Ira Fronten, Luce Santambrogio e Kalua Rodriguez.

A un’altra tragedia, l’Edipo re di Sofocle, si è ispirato l’inglese Steven Berkoff per il suo Alla greca che il teatro dell’Elfo mette in scena con la regia di Elio De Capitani (all’Elfo Puccini di Milano dal 21 ottobre). Il re tebano qui diventa Eddy, un giovane punk londinese che negli anni della Thatcher abbandona la casa dei genitori per sfuggire all’infausta profezia di uno zingaro.

Non tradotti in italiano bensì nello splendore della lingua originale del Bardo, ascoltiamo al teatro Mercadante la carismatica Charlotte Rampling scandire i suoi Sonetti in Shakespeare/Bach, accompagnata dal violoncello dell’americana Sonia Wieder-Atherton (riunitesi dopo l’incontro per Danses Nocturnes che abbinava le parole della poetessa Silvia Plath alle melodie di Benjamin Britten) che ne cura anche la regia in una magica fusione tra poesia e musica. “Ho letto entrambe le edizioni dei Sonetti” dice Rampling” e ne ho scelti 19, un misto tra quelli dedicati alle donne e quelli d’amore pensati per gli uomini e man mano leggevo persone emergevano dal mio passato.” Un’ideale conclusione per una rassegna che è diventata un appuntamento imprescindibile dell’estate culturale.