L’amore celebrato in tutte le sue accezioni e variabili è stato al centro degli spettacoli del Ginesiofest, ospitato in un incantevole borgo delle Marche: drammi e passioni che spaziano da Shakespeare al nostro presente. Ne abbiamo parlato con Remo Girone e il direttore Leonardo Lidi.

“L’ammore nun’è ammore” – foto: Manuela Giusto

 

Far nascere un’importante evento in un luogo che porta ancora i segni del terremoto del 2016 (i cui gioielli medievali e romanici meritano un più che sollecito restauro e non la semplice messa in sicurezza) è un piccolo miracolo realizzato grazie alla tenacia della direttrice generale Isabella Parrucci, supportata da uno staff efficiente e disponibile a risolvere ogni imprevisto.

Dopo la simpatica e informale cerimonia d’inaugurazione condotta dall’attore Christian La Rosa, alla presenza del sindaco Giuliano Ciabocco, il programma si è aperto con una deliziosa commedia francese, Due vecchiette vanno a Nord, di Pierre Notte con Angela Malfitano e Francesca Mazza, dove assistiamo alle peripezie tragicomiche di due mature sorelle, Annette e Bernadette, che decidono, in seguito alla morte della madre quasi centenaria, di tumularne le ceneri nella tomba del padre, mancato da 25 anni.

Non sapendo però in quale cimitero sia stato sepolto, ignorano dove si possa trovare. Censiti i camposanti a nord di Parigi senza successo, decidono di spostarsi nella zona di Amiens nell’Alta Francia, sequestrando un autobus da 60 posti e iniziando uno spericolato viaggio on the road. Dopo aver ispezionato parecchi cimiteri, finalmente trovano la sospirata tomba per poi tornarsene alla loro bottega di paese. Mazza e Malfitano, autodirette, ci regalano un mix di perfidia e tenerezza, ingenuità e cattiveria che solo i rapporti tra sorelle o fratelli possono avere, il tutto con tempi comici perfetti, battute fulminanti e intermezzi canori: semplicemente strepitose.

Il direttore Leonardo Lidi è un giovane regista, ma già affermato e pluripremiato, nonché attore al cinema e in TV, e che ha da poco debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto con Il gabbiano di Cechov. Nella sua qualità di vicedirettore e coordinatore didattico della Scuola del Teatro Stabile di Torino ha portato a San Ginesio un gruppo di allievi con cui ha avviato una serie di laboratori.

Gli abbiamo chiesto di parlarcene come pure delle linee guida di questa sua prima esperienza di direttore artistico del festival.

“Sono felice per questo incarico, perché credo di aver tenuto una certa coerenza tra i ruoli di attore, regista, drammaturgo, direttore artistico e la nomina dello scorso anno a vicedirettore della scuola. La chiamata a San Ginesio è arrivata da Isabella e dal sindaco che mi hanno raccontato del Premio e del festival al quale ha fatto seguito e mi sono subito rimboccato le maniche per portare quello in cui credo, cioè il teatro di parola come forma di condivisione: è una miniera d’oro poco esplorata, in un momento in cui la tecnologia offre molte comodità che però paghiamo col contrappasso del distanziamento sociale prima consigliato e poi imposto.

Il teatro può intervenire nel ricordarci l’importanza dell’altro e quindi del condividere spazio, tempo ed emozioni con altre persone. Ecco perché in questo primo anno ho deciso d’invitare artisti del teatro di parola che hanno bisogno di un testo, che necessitano di materiale drammaturgico, avendo particolare attenzione alle compagnie che agiscono sul territorio, perché questo è un luogo ferito che necessita non di artisti che passano e vanno bensì di condividere emozioni. Penso che con il Covid tanti di noi avranno sempre più bisogno di questo.”

Leonardo Lidi – ph. Luigi De Palma

Nel suo percorso artistico salta agli occhi il breve intervallo di tempo in cui è passato dal lavoro di attore alla regia.

“In realtà sono due ruoli che ho sempre svolto in parallelo: firmo il mio primo studio da regista a 17 anni a Piacenza, la mia città, dove al Filodrammatici dirigevo i ragazzini e gli attori amatoriali. La spinta è sempre stata l’interesse più per gli altri che per me stesso. Mi sono tolto dal palcoscenico da tre anni, ma continuo con il cinema perché mi diverte e implica sì impegno però non una costanza temporale e un allenamento quotidiano che invece il teatro richiede ai suoi attori.

Preferisco canalizzare le energie verso la regia e, come direttore di una scuola con 20 allievi, penso non sia corretto etichettarli come attori di teatro, cinema o televisione. La cosa più importante per un attore oggi è la credibilità: se un attore la tiene alta e non si lascia ingabbiare da un unico maestro o forma di recitazione ha la possibilità di sconfinare in tutte le forme espressive.

Due vecchiette vanno a nord

Abbiamo Remo Girone come Presidente della giuria del Premio che è stato capace di fare proprio questo. Nello stesso momento girava La piovra e in teatro interpretava Zio Vanja. Lino Guanciale, uno dei nostri premiati, è al Piccolo di Milano ed è con me nella fiction Noi. L’intenzione e la speranza qui a San Ginesio è quella di farlo diventare un borgo degli attori che non sono coloro che, come infelicemente qualcuno ha sentenziato, ci devono far divertire, ma che vengono a recitare, a incontrare il pubblico per illustrare il loro lavoro e anche a condurre, come nel caso di Christian La Rosa in questa edizione.”

Nel suo felice incontro con i classici e con Tennessee Williams, ha sfiorato il tema dell’omosessualità con il personaggio di Tom nello Zoo di vetro. Un incontro che si ripeterà?

“Ho commissionato a un mio allievo gay un testo che parli di una storia d’amore tra due ragazzi italiani. Sulla tematica è molto difficile trovare una drammaturgia che racconti la nostra realtà. I miei allievi (tra i 18 e i 24 anni) mi insegnano molto su questi temi e sono molto più avanti di me. La pièce s’intitola Come nei giorni migliori e io ne curerò la regia. Racconta della difficoltà di gettare le basi di una relazione, ma con la volontà di vivere una storia d’amore pur appartenendo a famiglie e ambienti sociali diversi e conflittuali, cercando di rispondere alla domanda cosa significa amare.”

Siamo tornati sotto le stelle nel suggestivo chiostro di Sant’Agostino per vedere Lino Musella, attore che concilia benissimo teatro, cinema (è nelle sale con Il pataffio) e televisione (tra le diverse fiction è apparso da poco in L’ora), protagonista di L’ammore nun’è ammore, prezioso collage dei Sonetti di Shakespeare, meno noti delle sue tragedie e commedie, ma non meno pregevoli e lo dimostrano le recenti rivisitazioni canore realizzate da Marianne Faithfull e Rufus Wainwright.

Come si evince dal titolo, trenta di loro sono stati “traditi” e tradotti in napoletano da Dario Jacobelli, sceneggiatore cinematografico e autore di canzoni per Beppe Barra, Daniele Sepe e 99 Posse. In origine si tratta di una collezione di 154 sonetti (126 dedicati a una donna e 28 a un uomo) pubblicati nel 1609, ma difficilmente databili secondo una scansione cronologica, dove non compaiono personaggi definiti quanto tematiche come lo scorrere del tempo, la caducità dei sentimenti, la bellezza, la mortalità e, ovviamente, l’amore. Sono altresì una palese testimonianza della bisessualità dell’autore (peraltro suffragata da dati biografici e da studiosi della sua opera) come traspare dal sonetto 18 (Shall I Compare Thee to a Summer Day?) e soprattutto dal 20 (A Woman Face with Nature’s Own Handed Painted con il celebre verso Master Mistress of My Passion).

È soprattutto l’amore a cui si ispira Musella per un’emozionante performance supportata da pochissimi elementi scenici: un tavolino da trucco, una parrucca bianca, un velo di cipria ed ecco che da uomo si trasforma in una vecchia signora amareggiata dalla vita e dallo sfiorire della beltà; una vestaglia da camera e diventa un amante abbandonato o tradito; una bianca canotta e si trasforma in un aitante giovanotto pronto a combattere per conquistarsi i favori dell’amata. Fondamentale l’accompagnamento musicale dal vivo di Mario Vidino ai cordofoni e alle percussioni che si sposa alla perfezione con l’armonia e il fascino della lingua napoletana pur talvolta enigmatica.

Remo Girone

Remo Girone ha dato il suo autorevole contributo al festival optando per un reading di brani tratti da La crociata dei bambini del francese Marcel Schwob (1867-1905), pubblicato con una prefazione di Borges dall’editrice Se. Si narra di due spedizioni di ragazzini, una proveniente dalla Germania, l’altra dalla Francia, che nel 1212 si mettono in cammino con meta Gerusalemme per riscattare il Santo Sepolcro, convinti di poter attraversare il mare a piedi per mezzo di un miracolo, lo stesso che fece camminare Mosè sulle acque del mar Rosso. Il destino li vedrà invece morire o finire imprigionati o ridotti in schiavitù. Dividendola in tre giornate, il Presidente si è alternato nella lettura con alcuni allievi della scuola torinese, scegliendo come location un belvedere con le dolci colline sullo sfondo, illuminate dalla luce del tramonto.

Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la genesi del festival e le sue aspettative.

“L’idea è nata in una riunione tenutasi tempo fa a Monte Carlo tra i Comuni Arancioni di cui San Ginesio fa parte. In quell’occasione ho conosciuto il sindaco e mi sono ricordato di quando, studente all’Accademia di Arte Drammatica, ci diedero una medaglietta raffigurante proprio San Ginesio, un martire cristiano diventato protettore degli attori. Gli ho allora proposto di ideare un premio dedicato a questi ultimi, mi ha richiamato due anni fa dicendo che erano pronti e in pochissimo tempo abbiamo realizzato la prima edizione. Lo scorso anno abbiamo fatto la seconda e ora siamo alla terza: l’obiettivo è quello di far diventare il borgo una sorta di casa per gli attori di teatro. Viaggio spesso in Italia e osservo che l’attore gode di una stima particolare presso il pubblico. L’ho verificato durante la pandemia facendo uno spettacolo all’Opera di Roma, Zaide, un singspiel incompiuto di Mozart, diretto da Graham Vick, con un sostanzioso intervento di Italo Calvino che ricrea il libretto perduto. In parte è cantato ma c’è il testo che prospetta varie soluzioni della trama: se il tenore s’innamora del soprano, succede questo, se s’innamora del baritono succede quest’altro. Dopo cinque recite le sale sono state chiuse e in quel periodo mi sono reso conto che la gente aveva proprio fame di teatro.”

Dopo tanto cinema e televisione è tornato in palcoscenico e al Campaniateatrofestival ha debuttato con Il cacciatore di nazisti, basato sugli scritti di Simon Wiesenthal che sarà in tournée a dicembre al Franco Parenti di Milano.

“È un monologo scritto e diretto da Giorgio Gallione in cui io sono Wiesenthal. A un certo punto lui dice che la cosa più importante per comunicare l’emozione è la testimonianza di chi le cose le ha vissute. Scampato a cinque campi di concentramento, motiva il suo impegno con la speranza che quanto accaduto non si possa più ripetere.”

Teatro, cinema e televisione: quali debiti di riconoscenza pensa di avere con questi media?

“Il debito ce l’ho con tutti e tre e anche con la radio. Un attore moderno deve avere la possibilità di potersi esprimere con ogni mezzo anche se la grossa popolarità viene soprattutto dalla televisione e dal cinema. In effetti si aiutano l’un l’altro: davanti alla macchina da presa c’è la necessità di essere veri che non è automatica facendo solo teatro, perché quest’ultimo ti porta a lavorare molto sulla parola mente il cinema ti costringe all’interiorità.”

La vedremo presto anche in TV nei panni di un ex operaio italiano emigrato in Svizzera al centro di una saga familiare e accarezza l’idea di tornare a lavorare con sua moglie, l’attrice argentina Victoria Zinny che lo accompagna al festival. Forse però nella sua lunga carriera manca un personaggio omosessuale.

“No, ho fatto anche quello. È stato nel film Per finta o per amore di Marco Mattolini, il regista che a teatro ha diretto Bent di Martin Sherman e Come gocce su pietre roventi di Fassbinder. Ero Amedeo, regista gay che per affetto quasi paterno aiuta Domenico, un giovane disoccupato che deve fingere di essere omosessuale per ottenere il posto di segretario offerto da una starlette televisiva. Mi piaceva perché lontano da cliché negativi e stereotipi tipo Vizietto.”

Woody Neri – ph. Ester Rieti

Gli spettacoli sono proseguiti con Mistero Buffo per la regia di Eugenio Allegri. L’iconico testo di Dario Fo e Franca Rame ha trovato in Matthias Martelli un nuovo, brillante interprete che, senza voler imitare il Maestro, ha saputo rivitalizzare le storie raccontate da un giullare del popolo che, sfidando le ire dei benpensanti, non teme di demistificare il sacro e il potere.

Ispirato a tre audiocassette incise negli anni Ottanta è Gianni, un monologo di e con Caroline Baglioni, che dopo 20 anni ha ritrovato quella sorta di testamento sonoro dello zio Gianni Pampanini, affetto da depressione e scomparso nel 2001. Nelle registrazioni descrive se stesso, le sue inquietudini, i suoi desideri e il rapporto con la società.

Si ritorna a sorridere riparlando di Shakespeare con Woody Neri di Sotterraneo Teatro che ha proposto Shakespearology dove, a somiglianza delle radiofoniche Interviste Impossibili degli anni Settanta in cui famosi personaggi del passato venivano messi sotto torchio da uomini e donne di cultura contemporanei, il Bardo viene interrogato sulla sua vita pubblica e privata da alcuni giovani teatranti di oggi che udiamo fuori campo. Nonostante l’eclettismo e la simpatia di Neri che, nei panni del drammaturgo, recita, balla e canta egregiamente, il lavoro presenta qualche fragilità nella sua struttura.

Caroline Baglioni – ph. Anna Sincini

La proposta che più ci ha emozionato è stata Concerto per Vitaliano, un dittico di due monologhi (Solo R.H. e Oscillazioni) prodotto dal Ginesio Fest e in prima nazionale. Vitaliano è lo scrittore e drammaturgo vicentino Vitaliano Trevisan che, per sua scelta, non è più con noi. Il primo fu scritto per Roberto Herlitzka che lo interpretò nel 2007 a Roma alla rassegna di teatro omosessuale Garofano Verde, curata da Rodolfo di Giammarco, quell’anno dedicata alla memoria di Matteo, un sedicenne di Torino gettatosi dal balcone perché schernito dai compagni in quanto gay.

Solo R.H. è la cronaca a posteriori di una relazione tossica tra due uomini, un giovane ricco e infelice che mantiene un maturo scrittore fallito solo per le sue inesauribili capacità di soddisfarlo sessualmente, quasi fosse un attempato toyboy. Quest’ultimo sta smantellando la casa-prigione dove hanno vissuto, accanendosi sui troppi ritratti autocelebrativi del compagno, le cui sprezzanti parole ricordate (ma forse per sentirsi meno solo) altro non sono che frasi e citazioni di autori come Shakespeare, Beckett o Parise. Comprendiamo allora che è morto, precipitato da una finestra. Incidente, suicidio o ammazzato dal partner vessato e umiliato per anni? Non lo sapremo come non sapremo se il sopravvissuto vorrà seguirne la sorte come sembra di intuire dalle sue ultime parole.

In Oscillazioni a raccontare la sua storia è un uomo che, dopo aver sempre frequentato con soddisfazione solo prostitute slave, si lega sentimentalmente a una compagna a patto di non sposarsi e di non avere figli. Viene però da lei ingannato e si ritrova suo malgrado marito e padre di un figlio che, sin dalla nascita, non vorrà mai vedere, abbandonando entrambi. Nel giorno del settimo compleanno del bambino accetta l’invito a cena da parte della moglie, e dai suoi preparativi avvertiamo che una sanguinosa tragedia è alle porte.

Michele Di Mauro, anche regista, servito al meglio dall’inquietante impianto sonoro di Franco Visioli, ci regala una performance di altissima qualità, toccando le corde del tragico senza eccessi, lontano dal naturalismo pur rimanendo fedele a un linguaggio crudo che sviscera senza censure i dettagli intimi dei rapporti sessuali e ci lascia due ritratti indimenticabili. Una pièce che merita davvero una circuitazione a livello nazionale.

Gran finale in piazza Gentili con la premiazione: quest’anno dalla giuria composta da Remo Girone, Rodolfo di Giammarco, Lucia Mascino, Francesca Merloni e Giampiero Solari, sono stati prescelti Lino Guanciale, Paolo Pierobon e Petra Valentini: due attori che non hanno bisogno di presentazioni e una giovane attrice che è già stata diretta da registi di successo e che vedremo allo Stabile di Torino dal’11 aprile nella pièce di Liv Ferracchiati Uno spettacolo di fantascienza. Un augurio affinché San Ginesio continui a tenere il festival sotto la sua egida.